Domenico Quirico con Il Mare è un grembo: «Il giornalista deve farsi migrante»

Paolo Morelli

Torino, 25/09/2017.

Il palco del Teatro Gobetti di Torino è avvolto nell’oscurità, illuminato di un rosso intenso solo nel fondale. Il contrasto disegna nel buio le sagome di quattro persone, che sciolgono gli ultimi dubbi prima di dare il via allo spettacolo, Il mare è un grembo, uno degli eventi più attesi (tutti esauriti i biglietti) della 13a edizione di Torino Spiritualità.

Le luci si accendono, le prove sono terminate, e dalle sagome passiamo ai volti. C’è Elena Ruzza, ideatrice dellla rappresentazione, un viaggio fatto di musica e racconti per solcare il mare che separa l’Italia dall’Africa, la speranza dall’illusione. Poi c’è il pianista Davide Cuccu, e c’è anche Karam Mansour, uno di quelli che il viaggio “della speranza” l’ha fatto sul serio e, per sua fortuna, oggi lo può raccontare.

Domenico Quirico è al centro del palco, scambia le ultime considerazioni con Elena Ruzza e poi pensa a come riempire il tempo rimasto tra la fine delle prove e l’inizio dello spettacolo.

«Si recita a soggetto», dice Quirico a proposito di Il mare è un grembo. «Io racconto quello che so – rivela – e Karam racconta quello che sa. Lo spettacolo può cambiare a ogni eventuale replica, perché potremmo dire delle cose diverse dato che non abbiamo un copione».

L’idea è nata per caso, come buona parte delle cose sincere e appassionate, dopo un incontro tra il giornalista e Elena Ruzza, avvenuto al centro di accoglienza di Settimo Torinese. Lì hanno incontrato anche Karam Mansour (che però non era un ospite del centro).

Oltre a raccontare, però, è necessario affrontare anche il problema della percezione, che nel nostro Paese ha raggiunto una siderale distanza dalla realtà. «Fino a sei anni fa – ha commentato Quirico – non esisteva questa insofferenza nei confronti del migrante. Si è sviluppata una xenofobia di massa che in alcuni casi è inseguita anche dal Governo, perché la priorità, ora, è togliere la migrazione dalla visibilità».

Un cambiamento rispetto al passato, quando, ad esempio, l’Italia visse l’immigrazione di massa del popolo albanese pur tra consuete polemiche, ma senza un clima d’odio come quello attuale. «La migrazione è considerata il principale dei problemi – ha aggiunto – e si è diffusa l’idea fantascientifica che risolvendo questo problema si risolvano anche tutti gli altri. La gente è convinta che sia così».

È indubbio, però, che a diffondere questo messaggio abbiano contribuito anche i giornali. «Hanno giocato un ruolo primario» ammette Quirico, che identifica due dannose consuetudini entrate nel racconto giornalistico. Parla di un continuo «tambureggiare», da parte dei media, sulla migrazione vista come un problema, che cancella quasi del tutto la faccia “buona” di un fenomeno che, come ogni questione complessa, ha lati positivi e negativi che si intrecciano.

Ma c’è anche un altro aspetto. «La migrazione – afferma Quirico – è stata raccontata intervistando i migranti, ma credo sia concettualmente sbagliato. Il migrante può raccontare solo parte dell’esperienza, per pudore, per paura. Il giornalista deve invece farsi migrante, vivere con loro, viaggiare con loro, capire che cosa vivono». Un’operazione, questa, compiuta ad esempio da Fabrizio Gatti, giornalista dell’Espresso, con il suo libro Bilal.

Un’operazione anche costosa, tuttavia, che oggi i giornali non finanziano più, o comunque raramente. «Non credo sia solo un problema economico – commenta Quirico – secondo me non si fa anche per fifa».

E se Quirico dovesse partire domani per andare in un luogo chiave per raccontare le migrazioni, dove andrebbe? «Agadez», risponde senza alcuna esitazione. Il centro Tuareg, nel cuore del Niger, è oggi il crocevia dei migranti nel Sahel. Una città con secoli di storia che ospita passeur, migranti in cerca di speranze, trafficanti, mercanti. «Le rotte migratorie cambiano – aggiunge Quirico – ma in questo momento il centro di tutto è Agadez. Le migrazioni, soprattutto dopo i provvedimenti “minnitiani”, si sviluppano soprattutto su terra, attraverso il deserto, non sul mare».

Il mare è solo l’ultima parte del viaggio, è un «grembo» che accoglie le speranze, oppure le infrange insieme alle onde sugli scogli. La cosa certa, che emerge dall’incontro con Domenico Quirico, è che l’antidoto alla narrazione tossica dei migranti è la conoscenza, il racconto di chi è andato a vedere come stanno le cose. Basterà? Non possiamo saperlo, ma mai come ora ne abbiamo tutti bisogno.

Di Paolo Morelli

Argomenti trattati

Newsletter EventiResta aggiornato su tutti gli eventi a Torino e dintorni, iscriviti gratis alla newsletter