Cederna dà voce alle storie di migranti di Gianmaria Testa

Marco Caselli Nirmal
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Da questa parte del mare, spettacolo omaggio a Gianmaria Testa in prima nazionale al Teatro dell’Archivolto il 27 e 28 aprile (sala Mercato ore 21). Tratto dal libro e dal concept album omonimi di Testa, lo spettacolo, diretto da Giorgio Gallione e interpretato da Giuseppe Cederna, racconta storie di migrazioni. Una produzione Fuorivia e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, in collaborazione con il Teatro dell’Archivolto.

Il 27 e il 28 aprile precede lo spettacolo lo show cooking sulle cucine del mondo e aperitivo multiculturale a cura di Nati per soffriggere, un progetto a cura delle cooperative Il Biscione e La Comunità, a cui in questi mesi hanno preso parte rifugiati e migranti di diverse nazionalità

Genova, 28/04/2017.

Questa volta il libro è quello di un amico e collega: Gianmaria Testa, artista, musicista, poeta e compositore, con cui Giorgio Gallione ha collaborato in tante occasioni. Nel 2001 con Guarda che luna, dedicato a Fred Buscaglione. Quella volta insieme a Testa sul palco c’erano Banda Osiris, Enrico Rava, Stefano Bollani, Enzo Pietropaoli e Piero Ponzo. L'anno successivo ne Il racconto dell’isola sconosciuta, tratto da José Saramago. Testa è stato anche ospite ricorrente nelle stagioni del Teatro Modena, in pratica tutte le volte che usciva un suo nuovo disco, ma anche per il fu-festival Mondomare - nel 2009, Testa fu protagonista insieme a Erri De Luca in una serata curata da Gallione.

Questa volta, proprio come già per Saramago, a interpretare la narrazione per palcoscenico, in un intreccio tra parole, musiche e canzoni,  a cui Gallione ci ha abituati, c'è ancora Giuseppe Cederna, cantore che adotta un tono basso, quasi sommesso, una tonalità intimista, per percorrere alcune delle trame di Da questa parte del mare. Si allacciano e sovrappongono percorsi autobiografici e incontri con migranti nell'esperienza di Gianmaria Testa che già una decina di anni fa, nel 2006, aveva lavorato sul tema per dare forma a un concept album - Premio Tenco 2007.

Ci era tornato su, poi, proprio nel 2016 quando, riprendendo storie di viaggio, di migrazioni contemporanee e turismo, di migrazioni storiche a confronto con quelle odierne, rintracciando volti  osservati solo fugacemente, o descrivendo incontri con persone poi divenute familiari, diede corpo a un libro intitolato proprio come il disco, Da questa parte del mare. Testa non ha fatto in tempo a vederlo pubblicato, il libro (Einaudi), per la prematura scomparsa (30 marzo 2016), ma c'era un passaggio implicito di testimone in un lavoro tanto denso di passaggi autobiografici e riflessioni personali.

Una matassa scura e fitta avvolge l'intero palcoscenico all'alzarsi delle luci. Nero e grigio scuro o grigio petrolio, a tratti blu, sono decisamente i colori dominanti di questa produzione. Attraverso un'esile tenda, Giuseppe Cederna si insinua in questo garbuglio, proiezione che in qualche modo suggerisce e si fa icona dei tanti fili narrativi che man mano si svolgono tra parole e piccole azioni. Cavalcando una sedia, sedendovisi di lato, mettendo i piedi in una pozzanghera-mare al cui centro un sasso-scoglio indica Lampedusa, l'attore ci accompagna dentro un preciso sguardo, rivolto a decifrare la tensione che tante vite umane genera, a guardare in faccia il senso del migrare contrapposto a quell'esperienza altra che viviamo da viaggiatori al che il mare nostrum lo percorrono in direzione opposta: uguali e a volte persino accanto, attraversiamo il mediterraneo, ma siamo profondamente diversi perché «noi abbiamo una casa e un documento di identità», riflette Testa, sottolineando la libertà di movimento e la serenità nell'idea del ritorno.

Dai tanti episodi emerge l'amarezza e la frustrazione di essere accanto ai migranti ma di non capirli o poterli raggiungere. Incontrarli ma spesso non potergli parlare. Vederli ma non riuscire a conoscerli. Viaggiare insieme a loro, ma difficilmente con loro. Le parole di Testa parlano di battelli in Grecia dove turisti e migranti sono separati da poliziotti in borghese che non permettono l'autonomia a questi e talvolta nella foga possono strattonare per sbaglio anche un turista.

La grande differenza è che la casa per chi è migrante è come la bocca di uno squalo, la canna di un fucile, oppure fiamma spaventosa che scaccia invece di accogliere. Un niente violento che si può solo tentare di dimenticare. Perché oltre alla casa perduta, ci sono le famiglie annientate dalla violenza della guerra, ci sono i sogni strappati dalle mani di persone comuni che mai avrebbero pensato di lasciare la loro terra.

Eppure qualche volta c'è stato anche un avvicinarsi reale. Qui si aprono i racconti nel racconto, le testimonianze dirette di chi certe odissee durate anni, per terra, deserti e mare, le ha vissute tutte sulla propria pelle. C'è poi quella piccola epica storia d'amore consumatasi e perdutasi in uno sguardo ricambiato: occhi negli occhi che restituiscono speranza, fanno ripartire le lancette del tempo che si era fermato, è la vicenda di Tinochika e della donna amata e perduta.

Gallione taglia e ricuce il materiale del libro per una tessitura affacciata soprattutto sul mare, per far emergere quest'altro protagonista, il Mediterraneo. Mescolando i fatti della contemporaneità, la visita di Papa Francesco, le scelte del sindaco di Lampedusa, l'incubo del 2011 dei 150 morti, cantato e recitato si amalgamano e si intersecano, perché le canzoni proseguono il racconto o lo precisano. Sono veraci interventi che sanno di sale, di vento, di strade, di sole cocente, restituiscono visione e materia alle figure evocate dalle parole.

Ci sono storie che restano, altre che nella corsa della narrazione sfuggono. Nessuna è meno importante, qualcuna è certo più estesa, ha maggiore forza empatica, come quella di Zainab e della nipote Tania, con un sogno di bambina: avere un elefante da mettere nel suo giardino nella nuova casa di Trapani. Storie e fatti, fatti e storie. E c'è ancora l'attualità, che ha un nome di donna, la grande madre Agnese, che si occupa dei minori rifugiati e, in quanto tutrice, donna e madre, firma per l'interruzione di gravidanza quando le arrivano bambine di 13 o 14 anni incinte perché vittime di abuso sessuale nel loro viaggio della speranza. 

Un episodio scivola nell'altro in una colatura di vicende umane che si assomigliano e si associano a dipingere un grande quadro fatto di molte tinte diverse, ma tutte sporcate da quel liquame misto a petrolio, nero o bluastro, in cui tanti migranti muiono avvelenati prima ancora di arrivare a destino.

Un poetico languore triste attraversa questo spettacolo che, come un cantico dedicato a creature perdute, celebra un cantore e il suo pensiero, abbracciando passato e presente di una vasta umanità, attraversata ora per caso ora con intenzione, mai con indifferenza.

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