Artista e guida di The Festival for the Earth: Ballestra e l'arte come trasformazione

Maria Rebecca Ballestra

10 agosto 2020. È morta Maria Rebecca Ballestra (Ventimiglia, 1974) all'età di soli 46 anni. Ad annunciare la scomparsa dell'artista e curatrice sono stati i familiari, con un messaggio su Facebook: «La nostra cara Rebecca è partita per il suo nuovo viaggio. Le esequie si terranno in forma strettamente privata. Un cerimonia pubblica si svolgerà prossimamente, si comunicheranno luogo e data. Grazie per le vostra vicinanza e preghiere».

Lasciamo che sia questa intervista dello scorso anno, avuta in occasione di The Festival for Earth, a raccontare le tante esperienze artistiche e la biografia di Ballestra. Oltre che artista, Ballestra è stata anche un'instancabile viaggiatrice e proprio dai suoi viaggi aveva tratto ispirazione per una forma d'arte che sapesse raccontare l'urgenza ambientale, a partire da Journey into fragility, un viaggio in 12 tappe, terminato alla Biennale di Venezia e dedicato alle fragilità del nostro pianeta. 

Genova, 13/10/2019.

Non manca più molto tempo all'edizione 2019 di The Festival for the Earth che si terrà il 6 e 7 novembre al Museo Oceanografico di Monaco e l'8 e il 9 novembre a Villa Nobel a Sanremo (tutti gli aggiornamenti sulla pagina FB). Nato nel 2016 da una serie di fortunate coincidenze, questa manifestazione chiama a raccolta scienziati e umanisti da tutto il mondo per ragionare intorno ai temi cari all'umano e viene molto prima di Greta Thunberg e del movimento Fridays for Future. Tutto nasce dall'attenzione per il pianeta di un'artista ligure Maria Rebecca Ballestra. Arte e ambiente un connubio nuovo? Assolutamente no chiarisce Ballestra: «Pensiamo alla Land Art e più in particolare, per fare un riferimento più puntuale, pensiamo a Michelangelo Pistoletto e alla sua idea di arte come trasformazione sociale nel suo manifesto del 2003 Terzo paradiso, presto diventato guida per il suo lavoro artistico nell'intento di un "ideale superamento del conflitto distruttivo in cui natura e artificio si ritrovano nell’attuale società" (dal sito dell'artista). Pistoletto rappresenta un attivatore di processi di trasformazione e un grande pensatore dí riferimento». 

Eppure la storia da cui è germinato questo festival è certamente curiosa e val la pena di ri-tracciarla insieme alla sua ideatrice.
Torniamo indietro al momento in cui tutto prende forma. Perché Venezia? «Per me è una città magica nel vero senso della parola, succedono coincidenze che altrove non si manifestano. Il progetto del festival è maturato proprio nella città lagunare e, in particolare, con la collaborazione di Ca' Foscari nel 2016. Al ritorno da Journey into fragility, (2012-2014), nel 2015 presentavo la mia installazione a Venezia sull'isola della Certosa. All'epoca avevo scoperto tante pratiche innovative per affrontare l'urgenza ambientale ma note solo a livello locale. Volevo condividerle con un incontro, inizialmente non così ambizioso. Da subito però ho capito che il tema era importante perché all'invito hanno risposto un premio Pulitzer, Goldman, e altre figure di spicco del mondo accademico. Sono state due giornate di conferenze e workshop che mettevano in dialogo figure molto diverse della società: attivisti, scienziati, cittadini, artisti, agricoltori, filosofi, economisti, biologi, ingegneri. L'intento era ed è condividere e diffondere buone pratiche». Da quel primo incontro è nata una pubblicazione? «Sul sito restano ancora molti dei contributi, però non ci sono ancora gli atti, ci sto pensando».

Come funziona il festival? L'accesso per esempio è aperto al pubblico? Si tratta di un evento a pagamento o gratuito? «L'evento è aperto al tutti e gratuito. Ho chiesto fin dalla prima edizione a tutti i relatori di adottare un linguaggio divulgativo e accessibile per un pubblico molto diverso per età che per estrazione sociale. L'edizione del 2018 era accreditata come ente formativo con il Miur Veneto e l'ordine dei giornalisti. Sta crescendo velocemente e sto lavorando su due edizioni estere: quella che si terrà in Ghana nel marzo 2020 e una in Kazakistan, non abbiamo ancora una data ma è stato firmato un memorandum of understanding con un ente IGTIC (International Green Technology and Investment Center). Il festival si tiene alternativamente a Venezia e Montecarlo. Nel 2019 è il turno del Museo Oceanografico di Monaco e di Villa Nobel a Sanremo».

Come vivi la relazione con ricercatori e accademici del mondo delle scienze? «Ho trovato che gli scienziati hanno una grande voglia di restituire e di confrontarsi. Negli anni è nata una grande comunità costruita sulla reciproca stima, sulla curiosità che si innesca e sulla voglia di mettersi in gioco - una relazione estremamente felice e arricchente». Che cosa ha favorito il dialogo con le altre professionalità? «Ha più bisogno il mondo dell'arte, che il sistema dell'arte dell'arte stessa. Come artisti il mondo ci riconosce un grande valore, ma all'interno del mondo dell'arte si tende all'autoreferenzialità. Il festival per me è una forma di condivisione che faccio più per l'esterno che per me stessa ma mi permette certo anche di emanciparmi dall'autoreferenzialità».

Facciamo un passo indietro per ragionare intorno a Maria Rebecca Ballestra e alla sua figura di artista. «È uscita all'inizio del 2019, da Mimesis editore, una monografia sul mio lavoro di cui io stessa ho saputo solo a cose fatte. È il risultato del lavoro di ricerca per la sua tesi di laurea di Elena Mencarelli e si intitola Maria Rebecca Ballestra. Una Fenomenologia del postumano. Cito questo libro perché Mencarelli organizza tutta la prima parte del mio lavoro in Opere di denuncia, dal 2012 invece individua le Opere di riparazione dove l'artista scende in campo per rispondere alle grandi questioni del contemporaneo».

Dunque a differenza di chi fa del proprio vissuto, delle proprie esperienze e persino del proprio corpo il punto di partenza per la propria dimensione espressiva, tu sei partita altrove? «Ho sempre cercato di escludere dalla mia arte la parte intimista per toccare tematiche globali, ma diventando oggetto del processo ho negato il presupposto e sono tornata a mettere in campo probabilmente la parte più intima che è il mio femminile, ma anche quella dimensione profonda che è universale e si rintraccia anche nell'essere maschile. Ho creato un conflitto e l'ho negato, siamo tutti appartenenti al tutto è questa appartenenza e ciò che mi interessa».

Belle Arti a Firenze. Poi un Erasmus a Malaga, mentre nel frattempo si era già lanciata in un concorso internazionale in Lituania (1998) e poi in Asia. Per un percorso formativo molto frastagliato, poco canonico e sparpagliato nel mondo che ha richiesto più tempo ed è stato «un continuo confronto con una scena mondiale». Così il tuo linguaggio si è trasformato e ibridato oppure è semplicemente cresciuto in una sua dimensione? «Parlerei proprio di ibridazione, anche perché per me il processo è l'atto creativo, io sono l'elemento agente e agito. Per il progetto Echo of the void, sto dedicando cinque anni al tema del deserto. Di solito si configura uno scenario ben preciso: io parto per una destinazione con un tema generico che vorrei affrontare, per esempio il deserto, ma è poi attraverso la trasformazione che vivo nel viaggio che nasce l'opera, quindi io sono ideatrice ma la natura agisce su di me».

Hai quindi ormai consolidato un preciso fare artistico? «Direi che è stato con Journey into fragility che si sono concretizzate delle caratteristiche che mi corrispondono profondamente nel fare arte, sto parlando della dilazione spaziale e temporale, di progetti articolati sempre su più anni e che implicano spostamenti in luoghi diversi, per una progettualità transdisciplinare e una pratica che prevede la trasformazione dell'artista». 

Come riesci a finanziare questa modalità artistica? «Cerco partner nei territori scelti per l'ospitalità. Oppure cerco dei call for artist che mi diano la possibilità di muovermi e articolare geograficamente il mio lavoro. Scindo il progetto in più parti così che la parte della mostra e del catalogo siano rivolti ad altri enti e io possa avere fondi dedicati». Qual forma espressiva prediligi? Che cosa vedranno in mostra tipicamente i visitatori rispetto ai tuoi progetti? «Le opere finali possono essere video, installazioni perché lavoro moltissimo con il mezzo fotografico. Per me l'opera è riuscita se riesce a innescare lo stesso processo trasformativo che la natura esercita su di me, magari sollecitando una domanda, una perplessità, un'illuminazione, ma continua a produrre cambiamento dalla natura all'artista, dall'artista all'opera e dall'opera a chi la fruisce». 

Facciamo un affondo sul progetto dedicato al deserto da dove sei partita e perché proprio il deserto? «A un certo punto osservando le carte geografiche mi sono accorta che da secoli disegniamo come spazi vuoti luoghi che non conosciamo, attraverso i processi coloniali abbiamo immaginato spazi che non ci appartengono. Il che ha generato anche degli stermini perché nella concezione eurocentrica nel deserto non c'è niente e nessuno e se c'è qualcosa o qualcuno in realtà secondo noi non ci devono essere. Poi i punti di interesse sono cresciuti: il deserto è un luogo del mondo poco antropizzato, la maggior parte dei deserti non corrisponde a un confine nazionale, quindi è territorio condiviso tra più paesi; sono ecosistemi complessi e molto diversi l'uno dall'altro e con specie animali e vegetali endemiche, per potere sopravvivere nel deserto occorre conoscere bene il sistema altrimenti è impossibile farcela. Dal deserto possiamo imparare molto rispetto all'esigenza ambientale del momento. Percorrerò i 18 grandi deserti del mondo mi sono detta. Il deserto del Sonora (USA) con un trekking a piedi grazie a una residenza d'artista Signal fires e poi nel Gobi in macchina con il supporto del centro MACSA (Mongolia). In Patagonia ho trascorso un periodo in una residenza all'interno di un paesino, Contralmirante Cordero, grazie al programma Barda del desierto. Rub-al-khali dal lato degli Emirati Arabi grazie al sostegno di un museo di arte contemporanea Maraya Art Center. Ho fatto anche un falso deserto, in Corsica, il desert des agriates e il più antico il deserto del Namib in Namibia. L'obiettivo è arrivare a 20. Ogni deserto è stata l'occasione per investigare un macro tema: migrazione, confine, tempo e spazio nelle società nomadiche, desertificazione, conflitto di civiltà».

Se dovessi definire la parola viaggio cosa proporresti? «Per me viaggio è tutto: punto di partenza, processo trasformativo, è atto performativo che non segue i canoni della performance ma è imprescindibile nel mio fare arte. Il viaggio è puramente esperienza, eventuali letture vengono dopo. Alcune esperienze sono negative ma sono comunque fondamentali e creative». Viaggio porta a esperienza. Esperienza è processo e arte. Arte è trasformazione. «La dimensione esperienzale consente una messa in gioco della nostra complessità e del nostro intimo nell'incontro fisico e una messa in gioco dei sensi di fronte alla complessità del contesto che viviamo a contatto con il mondo esterno, in cui guardiano, sentiamo, annusiamo, tocchiamo».

Keynote speaker confermato per il 6 novembre è Julian Lennon (cantante e musicista, pluripremiato autore del New York Times, artista e fotografo, nonché fondatore di The White Feather Foundation organizzazione no-profit che si occupa di questioni umanitarie e dell'ambiente. Juliann Lennon si intratterrà in una conversazione con Sandrina Rubelli (Interior designer, Photographer, IP Lawyer).

Di Laura Santini

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