Genova, 18/07/2025.
Nel dedalo dei caruggi del centro storico di Genova si possono trovare tantissimi spunti di riflessione: storie, visi, situazioni, progetti che stanno nascendo e reminiscenze di un passato lontanissimo oppure relativamente vicino ai nostri giorni.
Una di queste ultime è quella che riguarda le case chiuse che, prima della loro chiusura a seguito dell'entrata in vigore della Legge Merlin nel 1958, si trovavano in grande quantità tra i vicoli. Insieme a Marco Pepè, accompagnatore turistico genovese, ideatore del Ghost Tour e Indagatore dell'Insolito ed esperto di floklore, raccontiamo la storia e i retroscena di questi luoghi avvolti dalle ombre. Non a caso il termine casa chiusa deriva proprio da questa concezione: queste strutture dovevano infatti essere munite delle cosiddette gelosie, serramenti con lo scopo di impedire la vista dell'interno e le finestre non potevano essere aperte. Esiste un altro termine col quale questi luoghi erano chiamati, ossia bordelli, termine italiano che deriva dalla locuzione francese au bord de l'eau, a bordo d'acqua, per descrivere un qualcosa posizionato ai margini.
Prima di addentrarci in questo tour è doverosa però una premessa: il problema della prostituzione è una questione molto seria, da non sottovalutare e da non romanticizzare, perchè in molti casi ha a che fare con vicende di violenza, sfruttamento, criminalità e violazione dei diritti umani. Detto questo, parlare della presenza delle case chiuse nel centro storico di Genova può anche diventare un momento di riflessione culturale. Non è un caso che, proprio nella nostra città, alcune realtà organizzino dei tour guidati durante i quali si visitano i luoghi dove risiedevano le case chiuse e si racconta l'evoluzione del fenomeno della prostituzione a Genova da un passato remoto, passando per il Medioevo, il periodo del Risorgimento e fino alla loro chiusura avvenuta, appunto, il 20 settembre del 1958.
Non dimentichiamoci, inoltre il ruolo delle prostitute a cavallo tra Quattordicesimo e Quindicesimo secolo nella costruzione di importanti opere per la città. In quel periodo, a Genova, le prostitute potevano esercitare la loro attività versando cinque soldi alla Repubblica. Con questi proventi vennereo finanziati importanti opere monumentali, come la costruzione e l'ampliamento della Fabbrica dei moli. In quest'area portuale, per assurdo, a queste donne era proibito entrare, onde evitare la distrazione di marinai e camalli: da qui nasce un famoso detto popolare genovese usato per sottolineare un evento fuori dall'ordinario, ossia A l'è cheita 'na bagascia in maa, senza bagnase (è caduta una prostituta in mare, senza bagnarsi).
Ma iniziamo il nostro tour e lo facciamo da vicolo della Lepre, luogo che ospitava la famosa casa chiusa gestita dalla Scia Rina (signora Rina), con l'aiuto della portinaia Dolly. «La Scia Rina era anche chiamata la Tigre di Gondar perché era partita durante le missione d'Africa del ventennio fascista», racconta Pepè. «In un luogo non ben precisato del continente africano aveva aperto il primo bordello del regime e al suo ritorno in Italia, probabilmente con i soldi che aveva guadagnato, era riuscita ad aprire la casa chiusa Della Lepre. Questo bordello era frequentato prevalentemente dai gerarchi fascisti, ma anche dai sacerdoti».

Marco PepèAl suo interno era collocato un acquario ed era disponibile un ascensore privato, per far salire coloro che non amavano essere visti raggiungere il bordello. Il 20 settembre 1958, giorno dell'entrata in vigore della legge Merlin su uno dei quotidiani cittadini uscì un necrologio dei goliardi che annunciava la chiusura dell'attività della Scia Rina.
Un altro dei bordelli che la nostra città ospitava era il Senaraga, chiamato anche il Mele. Si trovava appunto in piazza Senaraga, che dista da vico Mele pochi passi. Qui era presente un bordello che era frequentato dagli scaricatori di stoccafisso del porto.
Come si può immaginare, l'ambiente non era profumatissimo: «Dopo aver passato tutta la giornata a scaricare quintali di stoccafisso sotto il sole, gli uomini non passavano certamente da casa a farsi una doccia ma, bramosi di consumare un momento d'amore, arrivavano direttamente dal porto al bordello di piazza Senarega. Per ovviare a questo fastidioso problema, la maîtresse lavava e inondava gli ambienti con litri di essenza di violette, fatta arrivare direttamente da Parigi. Ma questo non bastava! Infatti, il melange di odori comunque contribuiva a creare un olezzo molto pungente. La Madama, allora, aveva inventato la formula prendi tre, paghi due, per rendere almeno più convenienti gli incontri», prosegue Marco Pepè.
Le case chiuse, come gli alberghi, avevano una classificazione, da quella più infima a quella super lusso. Ma come potevano capirlo gli avventori? Semplicemente dal nome della casa chiusa: se aveva un nome proprio allora significava che il bordello era lussuoso, se invece aveva lo stesso nome della strada sul quale sorgeva, la classe era inferiore.
Tra via Saluzzo e piazza Banchi si trovava uno dei bordelli più importanti della città, il Mary Noir, il bordello dei banchieri, degli uomini d'affari, di coloro che, dovendo siglare dei contratti, preferivano questo luogo elegante piuttosto che un anonimo ufficio. «Si dice che molti contratti importanti di uomini d'affari siano stati siglati qui, un luogo che non aveva nulla da invidiare alle più lussuose case chiuse di Parigi. Proprio come nella capitale francese qui erano serviti calici di champagne e caviale. Inoltre esisteva una sorta di turn over delle operatrici, che cambiavano ogni quindici giorni. Caratteristica, questa, che indicava ulteriormente l'alto livello di questa casa chiusa».
Un altro bordello di lusso si travava in via Cebà, a ridosso di Galleria Mazzini. Parliamo del Suprema, un luogo veramente chic e interessante, di cui anche lo scrittore Remo Borzini ha lasciato delle testimonianze. «Qui non accoglieva gli avventori una portinaia, come in tutti gli altri bordelli della città, ma un portinaio», sottolinea Pepè. «Si trattava di un ragazzo di colore di origine africana o forse afroamericana, che viene descritto come un giovane magrissimo con grandi occhi profondi e denti bianchissimi, la pelle scura come l'ebano, simpatico, ma dai modi decisi, soprattutto con i clienti che arrivavano solo a far flanella».
Ma cosa significa fare flanella? È una delle tante espressioni riferite alle attività delle case chiuse. Far flenella significa curiosare, ma senza consumare. Ci sono però tanti altri modi di dire e diciture riferite ai frequentatori di case chiuse. Uno di questi è tubista, ossia il medico incaricato di visitare le ragazze. L'espressione più famosa però è marchetta, da cui deriva fare marchette, ossia prostituirsi. Le marchette altro non erano che monete - o gettoni - il cui utilizzo risale addirittura ai tempi dell'antica Roma, quando questa moneta, che all'epoca veniva chiamata Spintria, anzi queste monete (perché in realtà erano circa 16), venivano utilizzate all'interno dei lupanari.
«Quando il cliente arrivava, spesso si trovava a che fare con lavoratrici e lavoratori, perché nell'antica Roma la prostituzione maschile era pratica comune, provenienti dalle colonie. Non parlando il latino la barriera linguistica tra gli operatori e i clienti si faceva sentire, quindi questi ultimi, attraverso queste monete su cui era illustrata la posizione che avrebbero voluto sperimentare, compravano la prestazione e comunicavano le loro intenzioni».

Una riproduzione della Spintria
Più tardi, ai tempi dell'Unità d'Italia, il conte Camillo Benso di Cavour si avvalse dell'aiuto dell'ammaliante contessa di Castiglione per convincere Napoleone III ad aiutare l'Italia contro l'Austria. Da qui, tra strategia politica, militare e sanitaria (per contenere le epidemie di malattie veneree tra i soldati), nacquero i bordelli moderni, frequentati dai militari napoleonici e non solo. Proprio in questo periodo viene introdotta la marchetta, una versione ottocentesca della Spintria, che venne utilizzata poi dall'Unità d'Italia fino alla chiusura definitiva delle case chiuse: «Il gettone veniva consegnato alle ragazze prima di ogni prestazione. A fine giornata (o nottata), le marchette venivano contate e suddivise con le tenutarie, in un rapporto di 50/50. Alle ragazze, però, rimaneva in tasca molto meno della metà perchè, essendo obbligate a comprare il cibo e la biancheria dalle maîtresse, spendevano molto più di quello che guadagnavano, rimanendo con un misero venti per cento».
Ora però ci spostiamo verso vico degli Indoratori, dove si trova il palazzo che diede i natali a santa Caterina Fieschi da Genova. Tra sacro e profano, qui è proprio il caso di dirlo, a pochi passi da qui, più precisamente in vico dei Ragazzi c'era l'omonimo bordello, gestito dalla signora Angiolina. «Questa signora poteva essere considerata quasi una mamma, perché tra le sue stanze accettava anche coloro che non avevano compiuto la maggiore età, che all'epoca non si raggiungeva a18 anni, ma a 21. Inoltre qui il termine casa di tolleranza - un altro modo da sempre usato per riferirsi alle case chiuse - calzava a pennello, perché la struttura era tollerata sia dallo Stato, sia dalle forze dell'ordine che chiudevano un occhio, anzi tutti e due, facendo in modo che anche coloro che legalmente erano ancora minorenni potessero avere il loro momento di svago».
Una zona del centro storico di Genova in cui si trovavano addirittura quattro bordelli è via Lavezzi, una stradina che da salita dei Pollaiuoli e poi verso via dei Giustiniani, scende fino alla zona dell'angiporto: «Due di questi si trovavano in posizioni strategiche. Uno era all'ultimo piano di un palazzo, l'altro era al piano più basso, per questo che erano chiamati il primo il Dirigibile e il secondo il Sommergibile».
Un'altra particolarità, questa volta architettonica, si riferisce ai portoni di queste case chiuse, i cui archi di entrata erano delimitati da marmi, in alcuni casi ancora visibili. A questo punto arriviamo nella zona di Sottoripa, dove terminiamo il nostro tour, proprio di fronte a Palazzo san Giorgio: «Qui, il 20 settembre 2024 è stata svelata una targa che ricorda, celebra e onora, tutte quelle donne che nei secoli hanno esercitato il mestiere del meretricio e che con il loro contributo hanno fatto sì che Genova avesse un porto degno di una Repubblica», conclude Marco Pepè che, oltre a tutte le attività di cui si occupa e che abbiamo elencato in apertura, è anche presidente dell'Associazione Culturale Fondazione Amon Aps, attiva negli studi di folklore e di tradizioni popolari.
Di Paola Popa