Habitat Naturale al Museo Doria: esilaranti Elisabetta Granara e Diego Dalla Via

Genova, 17/01/2018.

Animali infestanti. Specie in via di estinzione. Due opposti che si intersecano. Si parte dal coniglio che infestò l'Australia nell'ottocento - continente restato separato dagli altri per migliaia di felici anni - fino all'arrivo degli europei che portarono con sè animali di ogni specie. Risultato? I marsupiali fecero una gran fatica a confrontarsi e tutto l'eco-sistema risentì pesantemente dell'invasione. Una guerra batteriologica contro i conigli sfugge di mano e finisce per ferire a morte anche specie protette, l'innocente uccellino kiwi, quello che non vola.  Habitat naturali e Habitat occupati indebitamente. Quale luogo appartiene a chi? Chi invade chi? Chi c'era prima ha più diritti di chi arriva dopo? Chi è la bestia? «Siamo solo una parte: una tra le specie del mondo della natura», ricorda la dottoressa eppure insistiamo a dire questo posto è mio anche quando non lo è.

Afferma la sua cifra stilistica, ci ricorda i temi che le sono cari, offre il suo sguardo indagatore sull'attualità Elisabetta Granara con questo suo nuovo spettacolo Habitat Naturale (progetto semifinalista Premio Scenario 2017, in collaborazione con Fondazione Luzzati Teatro della Tosse), scritto a quattro mani con Diego Dalla Via (anche compagno di vita), altro talento della drammaturgia contemporanea. Entrambi anche intepreti - Granara è la dottoressa-imbalsamata (tutta in bianco), direttrice del Museo di storia naturale, Dalla Via è il tutto-fare Severino, di origini venete (appunto) - hanno scritto il testo proprio visitando insieme il Museo di Storia Naturale G.Doria di Genova, ora teatro per una pièce a stazioni tra le teche e i vari habitat ricostruiti nelle diverse stanze - ancora in scena solo il 17 gennaio 2018 (ore 20.30).

Un intreccio filato su informazioni storico-scientifiche, montato su due personaggi caricaturali ma di cui gli interpreti abbracciano l'identità in toto, con precisa adesione, restituendo persone intere e non solo buffe maschere o goffi pupazzi. Il registro è comico. Il contenuto è denso e stratificato. I livelli di lettura articolati sul molteplice. Cinicamente disincantato il racconto è in realtà uno storyboard cinematografico in cui ci viene proposto di seguire i due personaggi in alcuni momenti della loro giornata lavorativa nel museo (tre/quattro spaccati del loro reale). Ogni scena è collocata in una delle stanze del museo. Mentre guardiamo lo spettacolo, migriamo da una stanza all'altra e intanto la regia/drammaturgia ci offre l'occasione per gettare uno sguardo impietoso su due creature in via di estinzione: la dottoressa e Severino appunto; ma anche su una realtà feroce. Sì, quella del mondo animale ma non tanto in sé, quanto a causa dell'homo sapiens, il responsabile più efferato della devastazione degli habitat naturali (e del cambiamento climatico).

Tra bocconi di storia, dati scientifici e rapide dissertazioni attorno alla terminologia e agli aspetti biologico-comportamentali del mondo animale arriviamo a dipanare la micro-trama di Habitat Naturale, contesa tra spunti che rimandano al film di Shawn Levy, Una notte al museo (2006) e forse anche al romanzo di Gaston Leroux, Il fantasma dell'opera (1910). C'è qualcos'altro da scoprire nella vita di un luogo. C'è di più da sapere su chi lo abita quotidianamente o temporaneamente. E soprattutto, a livello micro: c'è qualcosa che non torna e Severino vuole vederci chiaro. In modo fantozzianamente eroico, decide di trascorrere una notte dentro il museo (fa persino testamento dalla paura), per scoprire chi sposta gli animali e lascia banane ovunque.

Non sono gli animali i veri protagonisti di questa storia, anche se sono dappertutto. Quelle bestie impagliate, prive di vita, immobili nella loro qualità di reperti erano in principio utilizzati perché gli scienziati potessero studiare la vita, ci ricorda la dottoressa. Ecco il primo orribile ossimoro umano: usare la tassidermia - quindi uccidere e imbalsamare - per analizzare ciò che di più mutevole e dinamico esiste: la natura biologica di ogni specie, tanto determinata dal DNA, da geni propri, quanto dall'ambiente in cui ogni specie cresce e si sviluppa, sopravvivendo e adattandosi.

Quegli stessi animali immobilizzati per sempre, i cui occhi sono però tanto vividi (e tanto timore incuto al povero Severino) ricordano, almeno alla dottoressa, chi può e chi non può riprodursi e dunque garantire la continuità della specie e della vita attraverso la disseminazione, la dispersione del seme. Intervenire per modificare geneticamente creature animali e piante porta alla sterilità. Frutti senza semi, più comodi da mangiare, sono una cieca tappa verso l'auto-distruzione sia nello specifico di una specie vegetale sia per quelle creature che si nutrono di essa ma, a caduta, anche per l'intero eco-sistema.

Il centro del discorso, dunque, seppure a latere di un'esilarante gioco allusivo e metaforico, è piuttosto l'homo sapiens e quell'altra specie - secondo la dottoressa specie «rarissima» - l'homo apprehensi, chi si predispone a imparare e a prestare attenzione all'altro. L'auto-ironia trasforma la parte informativa e pedante in un'accattivante sintesi, tra termini e parole comuni, che la dottoressa offre con evidente disgusto, dall'alto di una smorfia del viso che le si è fissata per sempre intorno alla bocca (tassidermia pre-mortem?), avendo imparato la lezione che coloro a cui lei si rivolge non sono minimamente interessati a conoscere.

Le parole chiave del discorso non ci sono, anche se forse quella più corretta potrebbe essere migrazioni - senza gerarchie tra quelle umane e/o animali, come da secoli e secoli sul pianeta si avvicendano. Questa è drammaturgia cesellata ad arte: parole-tormentone? no grazie; polisemia? sì, certo. Ogni concetto rimanda ad altro, apre e suggestiona, fa ridere e riflettere, con la preziosa ambiguità che i vocaboli e le loro associazioni ci sanno garantiscono se usate con meticolosità. Niente è detto didascalicamente  - salvo quanto serve per costruire la caricatura della dottoressa - tutto è felicemente suggerito e tenuto lontano da facili cliché, insistite ripetizioni, banali stereotipi. Una notte al museo unica.

Assolutamente da non perdere.

Di Laura Santini

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