Proclami alla nazione alla Tosse: dalle finestre al palcoscenico

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Genova, 05/02/2017.

All'inizio si chiamava Progetto collettivo per finestre ed era nato sull'onda di una piccola residenza in un comune dell'entroterra ligure (Bajardo). Un primo estratto di venti minuti entrò nel programma del Rural Indie Camp Festival. Poi con i concorsi e i premi quei venti minuti sono diventati uno spettacolo da palcoscenico: vincitore Premio Giovani Realtà del Teatro (Udine) 2014, selezionato Pre-Visioni (Genova) 2015, finalista Premio Scintille (Asti), Anteprima (Lari), Young Station (Prato) 2015.

In realtà è bastato il premio Giovani Realtà del Teatro, per portare una piccola produzione a crescere fino a trasformarsi, essere notata e ospitata sul palco del Teatro Lux di Pisa nell'autunno del 2015. Così, da progetto a produzione: Proclami alla nazione è un lavoro collettivo ideato e interpretato da Elisabetta Granara, Giancarlo Mariottini, Sara Sorrentino e Carlo Strazza della compagnia SNC GranaraMariottiniSorrentinoStrazza in collaborazione con Il Gruppo di Teatro Campestre. Ora in scena a Genova, dal 9 all'11 febbraio 2017, al Teatro della Tosse.

Superato il formato per finestre, lo spettacolo è cambiato anche dal punto di vista drammaturgico: «A un certo punto - spiega Elisabetta - abbiamo fatto un salto e deciso di non portare avanti il sistema dei vari personaggi, ma di concentrarsi su uno solo dei quattro del progetto inziale, quello più riuscito, il militare, e di entrare nella sua testa».

Resta un'introduzione corale, poi un lungo «zoom nella testa del militare che porta avanti la storia fino alla conclusione». Dentro questa messa a fuoco emerge una crisi di identità del militare: «Non vuole più pensare né parlare, da un lato per timore che ciò che dirà potrà essere accolto male, frainteso all'esterno, dall'altra parte si sente completamente vuoto». Da qui una ricerca interiore per «ritrovare qualcosa da dire».

La drammaturgia è una fiaba surreale, uno sguardo sul nostro tempo, quello dell'ipercomunicazione, ma anche su come oggi sia facile dotarsi di un pubblico e offrire il proprio discorso, senza assumersene la responsabilità. Una riflessione sul inguaggio, sul momento storico che viviamo ma anche sul passato, e sui meccanismi che sono all'origine del dire e delle sue ragioni più o meno profonde. «Spesso essere sinceri non è facile, l'importante è avere qualcosa di importante da dire. La paura di essere fraintesi è talvolta un alibi, perché spesso l'individuo non riesce a riconoscere le proprie urgenze e quindi rimane in un empasse. Per piacere fa discorsi vuoti o tace».

La riflessione alla base dello spettacolo è anche una metafora sul lavoro del gruppo: «per fare grandi numeri in teatro, basta fare qualcosa di ridanciano. Se invece vuoi dire qualcosa di importante, se hai da dire qualcosa, devi avere il coraggio di dirlo affrontando critici e pubblico, confrontandoti con l'idea che gli altri possono fraintendere o non capire». Nel momento in cui si sono ritrovati a lavorare su questo progetto questo nocciolo del discorso è stato il fattore aggregante: «ognuno aveva le sue aspettative e i suoi percorsi, ma tutti convergevano su questa semplice domanda: Sì, ma noi cosa vogliamo dire?».

In scena il risultato «fa semplicemente ridere», spiega Elisabetta Granara che prosegue descrivendo la struttura drammaturgica: «perché è surreale, spiazzante, ma c'è sempre chi lo guarda chiedendosi cosa significa? La seconda parte serve a tranquillizzare, diventa più lineare, fa un passo indietro. Si ragiona su insensatezza e si arriva a un dunque, a un finale in senso classico. L'emergenza rientra e si giunge a una conclusione, sempre con una certa leggerezza. Perché l'altro elemento che ci ha accomunato come gruppo di lavoro fin da subito è stata una sottile ironia. Da parte del pubblico, ci vuole un po' di collaborazione, ovviamente. Più difficile se si è prevenuti entrare nel meccanismo e gustarsene l'umorismo. E poi ci siamo accorti, portandolo a vari pubblici, che le diverse generazioni ridono a loro modo e la nostra è proprio un'ironia generazionale».

A dirla tutta, poi, gli altri personaggi non sono scomparsi davvero, ma semplicemente ricollocati e ripensati. «Gli altri sono operai o impiegati al servizio della struttura cerebrale del militare. Sono i neuroni: soggetti quindi alle dipendenze di, proprio come i dipendenti di una grande azienda, intrappolati in tutte le problematiche del lavoro, precario o meno del nostro contemporaneo. Trovatisi di fronte a un guasto, devono trovare una soluzione e per questo uscire dalla routine. Questi neuroni fanno parlare la persona per cui lavorano senza implicazioni etiche, l'importante è che dica, che torni operativa. Eseguono ordini non si pongono domande, si preoccupano solo che il destinatario ci sia e reagisca positivamente, non importa come. In tanti casi questo porta a delle atrocità. Escono tanti discorsi pubblici che raccontano della possibilità e dei tentativi di esprimersi, che però sono anche parlare di niente, o parlare per piaciere ad altri. Si rende palese il meccanismo tra emittente e destinatario, che è poi lo stesso che sta dietro l'artista, ma anche all'opera d'arte, per non parlare di quanto si fa sui social. Ormai ciascuno di noi può fare un discorso pubblico, senza rischiare niente».

Fin'ora come ha reagito il pubblico? «L'ironia è molto stratificata, in generale l'avvio è molto divertente e ridono tutti, poi però nella seconda parte ci sono anche pubblici che restano più in silenzio, si capisce che hanno bisogno di raccoglimento per capire. La risposta però è sempre stata positiva. A Pisa e Varese abbiamo avuto un pubblico giovane con una sintonia immediata, poi quando l'abbiamo portato in un paesino vicino a Udine, dove sono abituati a spettacoli in dialetto e a forme più tradizionali di teatro, è stata tutta un'altra cosa, ma è piaciuto molto. La prova del nove comunque è stata con i miei genitori, a cui sottopongo sempre tutti i miei lavori. Questa volta mio padre quando è uscito ha detto Brava questo mi è proprio piaciuto, ha più spessore, è davvero molto profondo, ha detto, il che mi ha subito fatto pensare agli altri: Vorrà mica dire che non gli erano tanto piaciuti?».

Di Laura Santini

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