Da giovedì 22 a domenica 25 giugno 2017, il Teatro Franco Parenti di Milano presenta Medea per strada / sullo stradone, con Elena Cotugno (drammaturgia di Elena Cotugno, con la collaborazione di Fabrizio Sinisi; ideazione e regia Gianpiero Borgia, realizzazione scena Filippo Sarcinelli).
Lo spettacolo, itinerante a bordo di un furgone per 7 persone, è a prenotazione obbligatoria.
Milano, 22/06/2017.
I suoi capelli neri. La mano che continuamente li percorre. Li aggiusta. Li scosta. Li accarezza. Le labbra sottili «graziose», come osserverà lei stessa a un certo punto del racconto. La risata nervosa, quel parlare per frammenti tipico di una sala d'aspetto, un incontro occasionale, una vicinanza condizionata non richiesta. Un italiano inzuppato di un'altra lingua madre, che arriva più intenso, più tagliente, più penetrante nel suo essere altro. La finzione c'è: nei capelli, nel modo di parlare, di gestire il corpo e i capelli. Ma noi siamo lì sedute e seduti, su un furgone, e il viaggio è già cominciato quando lei sale imprecando contro l'autista e il verosimile è più vero della realtà.
Sette posti, più una poltrona nera un po' consunta: sarà quella l'angusto e consolatorio palcoscenico di questa Medea per strada, quello il trono di questa regina tragica. Il viaggio è sempre diverso, la storia sintesi di una, cento, mille storie troppo uguali, sempre identica che comincia con «Sei bella». Il viaggio determina il titolo, ogni città rinomina il percorso: in origine a Barletta era la strada 231, storicamente la 98; al Festival Suq di Genova era Medea sul lungomare Canepa; più genericamente è Medea per la strada / on the road o sullo stradone, assecondando la toponimia di quegli spazi urbani interstiziali dove le donne sono in vendita. In questo titolo che cambia ci sono le tante storie e le immaginabili scenografie che scorgiamo dal finestrino e che tanto si somigliano in ogni città. Accuratamente studiate, di volta in volta dal regista e ideatore di questo progetto Gian Piero Borgia, sono percorsi intesi non in senso voyeuristico ma luoghi evocatori, appositamente attraversati in orari non sospetti, per questa sua rilettura iper-contemporanea di Medea: prostituta, straniera, madre assassina.
Aderisce con innaturale precisione Elena Cotugno nell'interpretazione di questa giovane donna rumena: ne veste la pelle, un tremore tensivo tutto interiore e una durezza mista ad ammiccamento che lascia increduli anche a fine spettacolo. Quando l'applauso diventa stonato, eppure saluto necessario a un lavoro impeccabile. Cotugno non è solo voce e corpo di questa storia, è anche artefice della drammaturgia. Costruita, in collaborazione con Fabrizio Sinisi, raccogliendo vissuti e testimonianze, incontrando tante altre donne in molte associazioni (per esempio Oasi2 di Trani e On the road di Pescara), questa Medea nasce da un contatto ravvicinato e, dopo essere stata su vari palcoscenici, dallo scorso autunno (2016) torna alla sua fonte e al suo contesto in questo formato itinerante, offrendo al pubblico uno spaccato anche più severo dal punto di vista emotivo di quanto potrebbe fare uno spettacolo di teatro civile.
Ogni gesto, ogni passo falso linguistico sono una variante perfetta di un'identità riconoscibile in moltissime altre donne della stessa nazionalità. Elena Cotugno confessa che in realtà sarebbe stato più giusto agire la voce di una donna del continente africano, «perché sono tante, molte bambine e spesso molto più fragili rispetto alle donne dell'est europeo». Sono vere le informazioni sui tariffari delle piazzole, delle roulotte. È vero il personaggio dell'accompagnatrice Liliana. Questa Medea è una narrazione documentata, un dramma storico.
Mentre viaggiamo, guardiamo ogni tanto fuori dal finestrino: per imbarazzo, per necessità, per dare tregua a questo esemplare umano che attrae la nostra attenzione, commozione, senso di colpa, indignazione e paura. Ci salva proprio quel paesaggio che sfugge, in cui ogni tanto la stessa Medea cerca conforto. Non un flusso inarrestabile di parole. Al contrario, una partitura di stralci di conversazione, di tentativi di confidarsi, di abbozzati pensieri a voce alta. Così, a scossoni - come quelli del viaggio in furgone - ci porta a ritroso dentro le tappe salienti della sua migrazione: «Mio papà mi diceva: Eh, cosa fai qua? Vai in Italia, vai».
Tutto parte dal padre. Il padre che «è la casa», il padre che è «il primo che scegliamo di amare». Professore universitario scacciato da Bucarest, perché non fedele a Ceaușescu. Esiliato a Cocora, un paesino di duemila anime, il padre insegna l'italiano, legge poesie e canta l'inno rumeno. Un ricordo fisso e sbiadito questo padre, non una persona. Non più. Un piccolo ritratto portatile come il compagno di viaggio di questa Medea: il cellulare e casse acustiche portatili, nella forma di un buffo personaggio di plastica, che lei descrive come il suo amico. Da Cocora, un pullman senza soste fino in Albania. La promessa di una notte in albergo prima dell'arrivo in Italia. Poi gli schiaffi, via il portafogli, via i soldi, via il passaporto. Chiusa a chiave in una camera d'albergo. Nessun grido, nessuna rabbia, nessun pianto restituiscono la libertà. Poi un uomo «buono», dai capelli rossi che racconta barzellette. Un giorno l'arrivo dell'amico Gianni: il primo cliente. Un fidanzato-magnaccia, una piccolissima casa. L'illusione di una vita propria. La gravidanza. Una donna bionda dalle grandi labbra: il futuro strappato via da un uomo che lei non riconosce più.
Non c'è dolore nella morte dei figli perché il dolore è arrivato prima per Medea, non tanto e non solo nella prostituzione, ma nel vedersi accartocciata anche quell'infinitesima parte di «famiglia normale, di vita normale» che aveva quasi conquistato. E allora la follia: «noi portiamo la vostra follia occidentale alle estreme conseguenze», dice Medea offrendo la sua morale della storia. E noi restiamo a guardare, annaspando tra i residui di ragione fatti a pezzi fino all'ultimo brandello. Imperdibile.