Intervista a Stefania Iannizzotto: il linguaggio di genere secondo l'Accademia della Crusca

Mentelocale.it sta collaborando con Silvia Frattini, laureanda in Informazione e Editoria presso l’Università degli Studi di Genova, per la realizzazione della sua Tesi di Laurea sul tema del Linguaggio di genere. Pubblichiamo dunque una serie di interviste da lei curate sull'inclusività della lingua italiana in vari ambiti, da quello strettamente linguistico a quello riguardante il mondo dei social network.
L’intento di questi contenuti è quello di raccogliere punti di vista da parte di professionisti/e della materia, in modo da poter avere i mezzi per comprendere le varie sfaccettature del linguaggio fluido ed essere in grado di potersi fare un’idea personale sulla questione.

Di seguito pubblichiamo l'intervista a Stefania Iannizzotto, collaboratrice dell’Accademia della Crusca e professoressa di lettere.

Magazine, 09/09/2022.

1.     Dal punto di vista strettamente linguistico, l’utilizzo di alcuni termini con il suffisso femminile, in particolar modo legati a ruoli di potere come sindaca, ministra, direttora è corretto? O sarebbe più giusto usare comunque il sindaco o la sindaco? Qual è l’opinione dell’Accademia della Crusca?

R) Certo è corretto: segue le regole dell’accordo di genere comune a tutti i sostantivi, ma che riguarda anche articoli, aggettivi, pronomi e participi passati. Come scrive Cecilia Robustelli anche in Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo (pp.17-18, 2012): In italiano il genere grammaticale dei nomi è comunemente congruo con il genere biologico del referente (cioè il sesso della persona alla quale ci si riferisce): i termini che si riferiscono a un essere femminile sono di genere grammaticale femminile e quelli che si riferiscono a un essere maschile sono di genere grammaticale maschile (le poche eccezioni, come per esempio guardia, sentinella, vedetta che sono di genere grammaticale femminile anche se si riferiscono tradizionalmente a uomini, sono del tutto ininfluenti per quanto riguarda il sistema). L’articolo “concorda” per quanto riguarda il genere (e il numero) con il nome al quale si riferisce, quindi così come di dice la maestra e non la maestro si dirà la ministra e non la ministro. Non c’è nessuna ragione di tipo linguistico per riservare ai nomi di professione e di ruoli istituzionali un trattamento diverso.
Nel 2013 l’allora presidente Nicoletta Maraschio, in occasione dell’uscita del volume La Crusca risponde (a cura di M. Biffi e R. Setti, Le Lettere - Accademia della Crusca, 2013), aveva voluto ribadire l’opportunità di usare il genere grammaticale femminile per indicare ruoli istituzionali (la ministra, la presidente, l’assessora, la senatrice, la deputata ecc.) e professioni alle quali l’accesso è normale per le donne solo da qualche decennio (chirurga, avvocata o avvocatessa, architetta, magistrata ecc.) così come del resto è avvenuto per mestieri e professioni tradizionali (infermiera, maestra, operaia, attrice ecc.). La posizione dell’Accademia è documentata da diverse iniziative, tra le prime: il Progetto genere e linguaggio svolto in collaborazione col Comune di Firenze; la Guida agli atti amministrativi, pubblicata dalla Crusca e dall’Istituto di Teoria e Tecnica dell’Informazione Giuridica del Consiglio Nazionale delle Ricerche ITTIG-CNR; il Tema del mese a cura di Cecilia Robustelli, pubblicato nel marzo 2013 sul sito dell’Accademia e varie interviste rilasciate da accademici e accademiche.

2.     A livello sociale, il linguaggio gioca un ruolo fondamentale di sensibilizzazione al tema della parità di genere. Sappiamo che questo argomento è, tuttavia, alquanto divisivo. Lei crede che possa, invece, essere un primo passo per arrivare a una situazione paritaria? Ossia ritiene che il cambiamento sociale passi per il linguaggio o che sia il linguaggio a seguire di pari passo il cambiamento sociale?

R) Si può senza dubbio affermare, riprendendo ancora le parole di Cecilia Robustelli, che un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società e quindi al raggiungimento di una situazione paritaria. In questo senso il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare il processo di pieno riconoscimento del ruolo delle donne nel mondo lavorativo e politico del Paese. Il raggiungimento della parità di genere sarà dunque frutto di un doppio percorso che si intreccia e si rimanda per cui si può dire che sono entrambe vere le affermazioni che vogliono che il cambiamento sociale passi attraverso il linguaggio e che allo stesso tempo sia il linguaggio stesso a seguire il cambiamento sociale: è un processo reciproco determinato nel tempo dal sentimento linguistico dei parlanti che mettono in atto e interpretano le nuove dinamiche sociali.

3.     Crede che ci sia un legame tra la lingua italiana e una cultura con più radicato maschilismo, rispetto, invece, al mondo anglosassone, dove i nomi delle professioni sono validi per entrambi i generi, ad esempio (minister, mayor, etc.) e sembra esserci meno distinzione tra i ruoli?

R) Per poter dare una risposta bisogna distinguere tra struttura morfosintattica di una lingua (quindi desinenze e accordi) che permette al codice di funzionare e la sua componente lessicale, fraseologica e paremiologica (modi di dire, proverbi, frasi fatte) che è più malleabile e suscettibile a cambiamenti e interpretazioni e anche agli stereotipi. La questione del genere grammaticale – che è presente in molte lingue, anche se sono più numerose quelle che non lo hanno – rientra in quella che ho chiamato struttura morfosintattica della lingua. In italiano, lo abbiamo detto anche prima, riguarda i nomi ma anche gli articoli, gli aggettivi, i pronomi e i participi passati; in inglese invece è limitato solo ai pronomi. Ma il genere come categoria grammaticale non coincide con il genere naturale, di recente questo concetto è stato chiarito anche da Paolo D’Achille, accademico della Crusca, in un articolo molto dettagliato pubblicato nel sito dell’Accademia (Un asterisco sul genere) e proprio questo chiarimento dovrebbe far capire che non si può individuare in questo aspetto strutturale un legame tra lingua e maschilismo. Invece, sono numerosi gli studi che mettono in rilievo la componente “sessista” nel patrimonio lessicale, fraseologico e dei proverbi italiani. Tuttavia sono formazioni che spesso rimandano al passato e che risentono di una certa mentalità e di certe abitudini che oggi sono sempre meno radicate, e dunque anche linguisticamente meno praticate, soprattutto nelle giovani generazioni: si pensi al caso delle accezioni sessiste che periodicamente vengono eliminate dalle voci dei dizionari perché ormai in disuso. Questo potrebbe farci ben sperare, se una sorta di legame è esistito piano piano si sta allentando, sta a noi comunità di parlanti reciderlo del tutto.

Di Silvia Frattini

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