Il valore della vita umana in Bashir Lazhar alla Piccola Corte fino all'8 giugno

P. Lanna
Teatro Ivo Chiesa Cerca sulla mappa

Genova, 02/06/2019.

Finzione, nel senso di creare una falsa identità. Maschera, nel senso di "volto" da indossare per adattarsi a un contesto. Travestimento, inteso come vestire un "abito" culturale e confrontarsi con preconcetti e stereotipi. Illusione, ovvero meccanismo per potersi allontanare dal reale e lasciarsi andare alla propria visionarietà e riabitare così la parte "buona" di se stessi, tra amore per la vita e disperazione di fronte alla morte. Il quadro completo in Bashir Lazhar di Évelyne de la Chenelière (1975), autrice e attrice canadese, si può ricomporre solo alla fine di questa pièce in scena alla Piccola Corte - fino all'8 giugno 2019, all'interno della 24esima Rassegna di drammaturgia contemporanea, già mises en espace, interpretata da Fabrizio Matteini, per la regia di Sara Thaiz Bozano.

Scritto in francese québecoise nel 2002, adattato per il cinema nel 2011 con Monsieur Lazhar, da Philippe Falardeau (anche regista), nominato all'Oscar nel 2012 come miglior film in lingua straniera dopo aver raccolto premi al Festival di Locarno e di Toronto, Bashir Lazhar è una microstoria. Attraverso una vicenda personale si affronta il tema del valore della vita, dei pericoli che si possono correre all'interno e all'esterno del proprio paese. Dei concetti di diritti morali e civili e di sicurezza.

Un uomo migra dall'Algeria al Canada sperando di creare le condizioni per essere raggiunto dalla sua famiglia (tra il 1991 e il 2002 si è consumata una feroce guerra civile in Algeria). A Montrèal in Canada trova un lavoro come maestro elementare. Il suo incarico lo vede supplente in una quinta elementare ma di una situazione particolarmente delicata: la maestra di classe ha commesso suicidio, impiccandosi in aula. La ritroveranno gli alunni. Il pubblico può solo conoscere quello che il personaggio Bashir Lazhar apprende della storia e fa suo nel proprio quotidiano e in un personale vissuto che per piccoli sparsi indizi si rivela mostrando contorni altrettanto drammatici rispetto alla morte violenta di un'altra maestra elementare ma in tutt'altre circostanze. 

Il concetto di confine in questa drammaturgia vale dunque nel suo senso letterale e percorre il testo offrendo vari spunti per soffermarsi sul non facile confronto tra culture, nei processi di migrazione e integrazione, sia per chi arriva che per chi ospita. Nello sviluppo drammaturgico però il concetto di confine è genialmente sfruttato in senso metaforico là dove il vissuto di Bashir Lazhar si confronta con un altro contesto e un'altra idea di sicurezza, un'altra concezione di ciò che è pubblico e privato, un'altra visione su vita e morte e persino un'altra logica rispetto al significato da dare a parole come dolore, shock, trauma, disperazione. Lo scarto tra questi valori è agito criticamente e messo in discussione ma, soprattutto, posto a partire da uno sguardo rovesciato per una visione meno eurocentrica.

Siamo chiamati a guardare e comprendere la complessità del nuovo contesto canadese tramite la personalità contesa e complessa del signor Lazhar - dove tutto ciò che sembra non necessarimente è, ma ciò che è ci aiuta a ragionare e a snodare la trama, per arrivare a comprendere appieno lo sguardo, un po' individuale un po' epico, di quest'uomo. E a riflettere anche su noi stessi e il nostro modo di intendere il mondo e i suoi mutamenti. 

Il Bashir Lazhar di Fabrizio Matteini è una figura tratteggiata come antiquata in un gioco di sguardi che passa per come l'individuo si costruisce di fronte agli altri ma anche per come gli altri lo percepiscono. Si parte dalla finzione in Bashir Lazhar  per essere "altro" da se stessi, per necessità e per cavarsela in una nuova comunità e poter occupare un proprio spazio. Si lavora sul mascheramento: tante le possibili varianti da figura autorevole a pietosa o amichevole per un nuovo ruolo professionale. Ci si muove dentro un immaginario libero fatto di tenerezza e fantasia legato ai sentimenti intimi condivisi con i propri cari - qualcosa che ognuno di noi porta con sé e può riaffiorare in qualsiasi momento della giornata. Si altalena tra squarci di vissuto in cui il monologo è in verità un dialogo e gli interlocutori vanno comunque in scena nelle risposte del protagnista. Matteini agisce bene le tecniche interpretative per offrire una varietà di registri che tocchini finzione, mascheramento, travestimento, illusione. Tuttavia, impegnato in queste subitanee metamorfosi che la drammaturgia richiede, sembra restare sulla dimensione superficiale del personaggio e non arrivare mai ad abbracciarne la zona più dolente, frantumata, inquieta e metaforica, fatta di briglie che la drammaturga lascia molto libere e slacciate, ma crea sapientemente.

Quindi si entra scarsamente dentro intime quanto dolorose espressività - forse furiose? ma debolmente elaborate - che sorgono direttamente da un trauma incancellabile, capace di interferire e trasformare l'identità al punto che lo smarrimento ha spesso il sopravvento su chi si è scelto di impersonare, combattuti tra chi si è deciso di essere e chi si era. Tanti sono i punti in cui la narrazione si interrompe e chiede di interrompere ogni forma di lucidità - categoria prepotente nel personaggio costruito dall'interprete - per lasciar spazio a un flusso interiore squassato da riflessioni, immagini, episodi del passato o dialoghi mai avvenuti. Questa non può essere solo poesia o fanciullesca evasione a meno che appunto il tratto poetico non sia inteso lucidamente.

Questo lasciarsi andare entra nell'altro confine quello tra salute mentale e stato di disperazione, tra capacità di dominare una perdita e possibilità di controllo mentale che assume svariate forme lecite di manifestazione dello stato di afflizione profonda. Sono tanti i piccoli indizi che l'autrice lascia in questa direzione, anche solo in forma di singole parole che il traduttore Fabio Regattin ha saputo cogliere o restituire dentro i momenti riflessivi. Tracce lasciate sia per ricostruire un io contraffatto e tormentato, sia perché gli spettatori mettano insieme la vera storia, per così dire, di Bashir Lazhar. L'unico dubbio su una traduzione che lascia appunto molto godibile il testo nella sua articolazione, è legato all'omologazione attuata nel quadro in cui il maestro discute in classe gli errori di ortografia francese. Anni di doppiaggio ci hanno forse resi incapaci di vedere che è stato spostato il tutto dentro la lingua italiana a favore del pubblico, ma con qualche aggiustamento forse forse questo passaggio poteva trattenere il contesto in lingua francese (québecoise, algerino, francese standard) di per sé complesso e lavorare per accumulo, invece che distogliere l'attenzione, con un ulteriore livello di significato che il testo attiva proprio sullo scarto culturale, identitario, sociale, linguistico, di priorità nella vita, di diritti civili vecchi e altri acquisiti, ecc.

Sul palco banchi, sedie e fogli sparsi a terra (scene e costumi Anna Varaldo) descrivono in scena un prima che resta in chi l'ha vissuto, ma è solo racconto per Bashir Lazhar e per il pubblico. La stessa immagine scenica tornerà ben prima della fine dello spettacolo a marcare un altro momento di crollo, questa volta dentro la traccia narrativa che il maestro algerino si è costruito in Canada. Tutto crolla a un certo punto come un castello di carte. Eppure c'è speranza in questo testo proprio nell'idea stessa delle parole e nella capacità narrativa e immaginativa dell'essere umano, in scena restituita con un poetico coup de théâtre finale, svolto mentre la voce fuori scena di Matteini recita "La crisalide e l'albero", una favola di Bashir Lazhar. Creando storie la specie umana ha trovato da secoli l'elisir di eterna vita, antidoto alla propria caducità e strumento per trattenersi ancorati alla vita anche quando tutto sembra perduto, dentro regole del gioco che saltano ad ogni angolo delle nostre incerte esistenze, tramite quelle che a Monopoli chiameremmo "probabilità" e "imprevisti" con l'aggravante che il gioco della vita si gioca a pelle nuda.

29 maggio - 8 giugno 2019
@ Piccola Corte - Teatro Nazionale Genova 

Bashir Lazhar
di Evelyne de la Chenelière
versione italiana Fabio Regattin 
con Fabrizio Matteini
scene e costumi Anna Varaldo
progetto musicale Federico Pitto con le voci di Sonia Convertini, Mirko Iurlaro, Marco Rivolta
regia Sara Thaiz Bozano - assistente alla regia Valentina Favella

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