Sulla morte senza esagerare: si ride e ci si commuove

Laila Pozzo
Teatro della Tosse Cerca sulla mappa

Genova, 21/03/2017.

Da principio la morte. «Avevo visto uno spettacolo di burattini e mi aveva colpito la morte che stava lì ferma a osservare» - afferma Riccardo Pippa, regista e ideatore di Sulla morte, senza esagerare della compagnia Teatro dei Gordi una co-produzione con Tieffe Teatro Milano, in scena dal 24 al 26 marzo 2017 al Teatro della Tosse (Genova) all'interno della rassegna Passaggi. «Avevo anche scritto un canovaccio, ma poi ho voluto abbandonarlo, per lavorare su come agisce la morte».

Tra le suggestioni che hanno dato forma alla drammaturgia Le intermittenze della morte di José Saramago e, solo in un secondo momento, «uno degli interpreti ha portato la poesia Sulla morte, senza esagerare (da cui il titolo, ndr) della Wislawa Szymborska che è poi diventata base forte della nostra lettura sull'argomento».

Nel 2015, questo lavoro ha vinto il Premio Scintille un riconoscimento in denaro ma anche un'occasione per andare in scena al Teatro Menotti che appunto indice ogni anno il bando (dal 2010). L'interesse però è andato oltre il premio, tanto che il lavoro è diventato una vera e propria co-produzione con un ulteriore sostegno e la messa a disposizione dello spazio per il riallestimento e le prove.

Su una scena essenziale, rigorosamente vestita di nero e arredata solo da una panchina ci troviamo nel mondo della morte: «Volevamo un luogo neutro per questo la scena è volutamente semplice. La definizione degli spazi però è più articolata e si realizza con un lavoro sulle luci e sui suoni a cui si aggiungono le maschere. Le luci indicano una strada alle anime che entrano nel regno della morte».

In uno spettacolo in maschera privato delle parole, la morte è un uomo. O almeno così sembrerebbe da come è vestita: un signore in cravatta e gillet. Perché? «Perché la morte è un po' un impiegato. Ora da un lato c'è la contingenza delle persone con cui ti trovi a lavorare, d'altra parte abbiamo concordato su questa immagine dell'impiegato perché lui ha una sua prassi, come la morte, e non può tenere contro di altro, proprio come la morte. Non può tenere conto delle cose della vita e del mondo degli umani. Che ne sa la morte delle lacrime? Al massimo le usa per innaffiare il suo cactus. E come dice Szymborska, cosa ne sa la morte? "Non s’intende di scherzi, / stelle, ponti, / tessitura, miniere, lavoro dei campi, / costruzione di navi e cottura di dolci."».

Un impiegato chiuso nel suo mondo, assente agli altri e a se stesso. «È chiaro che ogni rappresentazione della morte è umana, quindi abbiamo pensato di far coincidere la sua alienazione con ciò che accade a chi segue una prassi lavorativa precisa. La morte sta lì, quello è il suo ambiente, non conosce altri mondi. Non può porsi i problemi della vita e del tempo come lo intendiamo noi. Certamente non poteva avere la falce. Quello zac che separa il corpo dall'anima, noi lo rappresentiamo ingigantito nelle nostre scene con una varietà d'azione anche all'interno dei vari passaggi, così che, ogni tanto, possa sfuggire un po' di benevolenza. Ma è molto bello che lei mantenga distacco ed è importante perché sia credibile».

Uno spettacolo muto perché fosse «esportabile e poetico». Eppure la parola emerge con prepotenza specie nelle «serate buone, quando si creano due effetti: quei rari momenti di silenzio assoluto e potentissimo dove non c'è più spazio neanche per i colpi di tosse e le suonerie dei cellulari, un momento magico di partecipazione totale a ciò che sta succedendo. Lì la sensazione è che lo spettacolo diventi coraggioso, la percezione è di qualcosa che mette in relazione senza mediazione. D'altra parte, la parola in realtà rientra spesso attraverso l'agire degli interpreti che porta molti spettatori a commentare a voce alta, riportando appunto i pensieri dei vari personaggi». La scelta del muto per Riccardo Pippa viene da una fascinazione nata all'interno di un lavoro precedente «fatto con un compagnia amatoriale, c'eravamo ispirati a Ballando ballando di Scola, in origine un testo teatrale francese. In quell'occasione avevo già visto la potenza di un linguaggio che passa attraverso le azioni invece delle parole».

Qual è la forza della maschera che vi ha convinto ad utilizzarla? «Con la maschera la finzione è sempre dichiarata, quindi il patto di credibilità è confermato, secondo per secondo. Se lo spettatore ci sta, entra nello spettacolo completamente».

Come le avete realizzate, che parte hanno avuto nel percorso di costruzione della drammaturgia? «Sono state il frutto di un lavoro non lineare e una scelta condivisa dall'inizio. Sono di cartapesta quindi la forma e la tridimensionalità deve mutare anche se sono fisse. A seconda dell'azione e della situazione, sarà il corpo dell'attore a modificarne l'aspetto, a muovere la maschera. E queste maschere sono ottime. Le ha fatte la nostra mascheraia, Ilaria Ariemme, insieme a noi, discutendo e aggiustando colore, forma degli occhi, sguardo, posizione della bocca».

Sono tutte molto caratterizzate, quasi bloccate in una smorfia. «Sì, ma più che una smorfia sono molto segnate eppure riescono a restare neutrali. Quindi si possono vedere tristi o contente. La loro tridimensionalità fa sì che ogni maschera possa esprimersi. Non sono state calibrate sugli interpreti e questo è un altro aspetto importante. Sono le maschere a scegliere l'attore, è difficile che uno si scelga la maschera. Fino ad un certo punto del lavoro c'è stato uno scambio di maschere tra gli interpreti, si procedeva divertendosi, in un percorso su più fasi. Alcune maschere sono nate su proposta della mascheraia. Per esempio la maschera del suicida, ispirata da facce di Otto Dix, è diventata il suicida solo in un secondo momento».

Dieci maschere per quattro interpreti: Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Matteo Vitanza. Un ruolo fisso: quello della morte affidato a Panigatti (presidente della compagnia Teatro dei Gordi). Come avete scelto i personaggi o meglio le varie morti? O tutte due? «Il tema è enorme, ci tenevamo che ogni personaggio portasse un'istanza ideale. Il giovane, per esempio, si trova di fronte alla morte, ma poi viene strappato a questo destino dall'intervento dei medici. Perché volevamo parlare della morte ma anche dei suoi fallimenti, proprio come nella poesia della Szymborska. Volevamo anche non negare alla morte il suo mestiere e vedere come faccia ad accompagnare nel trapasso. Però c'è anche il suicida: un personaggio che ritorna, in cui è continuo il richiamo verso la morte. Invece, la trans prostituta è come se venisse salvata da qualcuno che non obbedisce alla morte, ma è superiore ad essa. Un angelo, una figura provvidenziale. Pochi personaggi, ma significativi. C'è anche il soldato che va incontro alla morte e la moglie/madre che vorrebbe seguirlo, ma non può perché in lei c'è la vita. Nasce anche un bambino per raccontare di come la vita nasca con la paura della morte».

Hai parlato di spettacolo poetico ma intendi anche riferiti al teatro poetico come genere specifico? «No, sento che l'istanza poetica ci deve essere sempre, poi con quale forma si raggiunga dipende dal regista e dagli interpreti. Questo lavoro è profondo e poetico perché continua ad aprire e a moltiplicare il senso. C'è la voglia banale di incontrare la disposizione d'animo dello spettatore e far sì che il patto sia confermato e restaurato».

Credi che si sia rotto il patto con gli spettatori? Perché? «Sì e da tempo. Perché spesso in scena c'è una forzatura rispetto alle emozioni e personalmente, da spettatore, mi sento preso in giro oppure ricattato moralmente da una scena dolorosa che però non mi smuove. Credo si debba lavorare a ristabilire empatia. Almeno questo è l'obiettivo della mia ricerca artistica».

Di Laura Santini

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