Nel Falstaff di Ronconi l'ironia è forma. Imperdibile, al Carlo Felice

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Genova, 21/01/2017.

Una delizia per la vista. Un godimento per l'intelletto. Un'allegria per l'udito.
Riproposto al Carlo Felice nell'allestimento del 2013 per il Teatro di San Carlo di Napoli, il Falstaff di Luca Ronconi (ripreso da Marina Bianchi) usa l'ironia, il gioco del ribaltamento del senso e dell'evocazione sottile, per dare forma all'intero allestimento. In replica fino al 29 gennaio 2017.

La commedia che Arrigo Boito definisce nel suo libretto raccogliendo materiali shakespeariani da The merry wives of Windsor (Le allegri comari di Windsor) e Henry IV presenta una spassosa quanto scontata trama di intrighi e complotti in cui, come spesso in Shakespeare, si innesta sul finale una dimensione rituale risolta attraverso elementi magici e fiabeschi: le fate, la foresta e le sue creature incantate e stregate. Da un lato, c'è sir John Falstaff incline ad approfittarsi di donne e denari altrui; dall'altra parte, ci sono le donne - mogli, dame e figlie - e gli uomini - mariti e servi - decisi a dare una lezione agli appetiti incorreggibili di un uomo pingue e transadato, ubriacone e ingordo, di cibo vino e qualunque altro piacere a dispetto della dignità e dell'onore altrui e proprio. Complottare per raggiungere il proprio fine, spesso a danno di altre/i, è in verità pratica di tutti, donne e uomini (in un bell'equilibrio fuori da facili stereotipi), più o meno rispettabili, sono poi le ragioni di ciascuno ad emergere come lecite o illecite, più o meno legittime, ma la burla qui, nella lettura di Ronconi, vuole mostrarle proprio tutte e lascia al pubblico totale autonomia per leggerle a proprio gusto.

Tutti i personaggi riuniti insieme a monte della vicenda ormai consumata, canteranno in coro «Tutto nel mondo è burla» infrangendo i confini della finzione teatrale su invito di Falstaff «Un coro e finiamo la scena». Proprio da questo finale, fuori dalla parte, prende le mosse tutto l'impianto ronconiano. Quasi fosse un'indicazione assoluta, Ronconi monta e rimonta comicità e ironia, ne amalgama le fila, tracciando uno scherzo su tutto l'allestimento a cui tutto il cast ben si conforma sia nella recitazione che nel canto.

Le macchine che trasportano letteralmente tutti in scena, raccontano via via gli stati d'animo e le nature specifiche, restituendocele appunto straniate e travestite in ingombranti e desueti veicoli. Il fascino intramontabile della macchina in scena, il loro sapore d'antan, la loro articolazione, creano un ulteriore livello di godimento. Lo strumento ha così valore simbolico e iconico: restituisce un sapore, un tempo altro con tutta la sua carica di significati e rimandi; snatura l'umano e lo scompone nelle sue parti, segnalando quelle claudicanti e fragili; punta a sottolineare il senso ultimo di questi personaggi resi burattini ma verso cui Ronconi e gli intepreti nutrono il massimo rispetto. Le macchine sono dunque le maschere, il resto è semplicemente commedia.

Il divertimento scaturisce da questa mano felice e attenta a sottolineare con assoluta accuratezza e originale invenzione i caratteri buffi e eccessivi dei personaggi. Non lavorando sulla recitazione però, ma piuttosto sui mezzi del teatro. Le reazioni del tutto umane vanno in prestito a un articolato artigianato teatrale fatto di dettagli rispetto ai costumi: trasandati (ma preziosamente originali), impeccabili (ma scontati), travestimenti immaginati per un fine (un matrimonio di interesse) e utilizzati per una contro beffa (smascherare un padre-padrone); alle scene, rese logore e semplificanti, oppure ricche con un semplice grande drappo, ma anche puntualmente definite con quinte nere che annullano tempo e spazio, preparando al rito, e alla magia, con una quercia che sovrasta tutti e cala dall'alto restando sospesa. Fino alle luci inclusive nonostante le fazioni o focalizzate per dare ritmo allo sguardo, e attrezzerie e macchinari che innalzano, schiacciano, trascinano, alleggeriscono o ingombrano in una precisa sequenza di entrate/uscite all'intero di quadri autonomi attraverso cui si svolgono i tre atti.

Alto e basso vanno reinterpretati: Fenton, innamorato di Nannetta, ad esempio, viene trascinato leggiandro su un carrello fiorito che scorre rasoterra, questo suo basso corrisponde alla sua onestà e purezza di sentimenti. Il dottor Cajus fin dall'inizio posto in alto è solo una lingua troppo pronta a emettere giudizi sugli altri eppure soggetto non meno incline a certi piaceri della vita rispetto al vituperato Falstaff; semplicemente più pavido, inesperto alle conseguenze degli eccessi e più moralista.

Ogni componente dell'arte teatrale, dunque, come un preciso ingranaggio dalla dimensione simbolica più che prettamente tecnica, contribuisce alla messa a nudo della commedia stessa oltre che degli intenti dei suoi partecipanti, in una fine forma di gioco metateatrale.

È come se nelle sue scelte, il regista ingaggiasse un dialogo con il suo pubblico conducendo tutti a puntare lo sguardo, traendone divertimento, a monte della vicenda e non solo là dove la struttura della commedia banalmente lo genera. La regia ci porta a scovare il buffo dell'agire umano nelle pieghe stesse della sua esibizione/teatralizzazione. Non si tratta dunque di un ridere a crepapelle, è piuttosto un solletticante sorridere attraverso preziose arguzie che il regista di quadro in quadro mette a fuoco.

L'unica parte della storia su cui Ronconi crea un alone totalmente autonomo e altro, seguendo la partitura di Verdi, è la sottotrama di cui sono protagonisti Nannetta e il suo innamorato Fenton . Anche nel libretto le loro parole segnalano una partecipazione passiva alla trama principale e un totale, assorbito sguardo dentro la propria passione giovanile. La poesia vocale e verbale di questi due personaggi, gradevolemente intepretati da Leonore Bonilla e Pietro Adaìni (il 20 gennaio 2017), regala forse anche i momenti canori dalle tonalità cromaticamente più apprezzabili.

Di Laura Santini

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