Torino, 11/12/2019.
«Questo è giornalismo a teatro». Ezio Mauro, giornalista, ex direttore di Repubblica, porta su un palcoscenico teatrale un lavoro di un anno e mezzo, fra ricerche, reportage per il quotidiano e anche un libro, un film e, appunto, uno spettacolo. Berlino. Cronache del muro è il suo ultimo lavoro, che arriva in occasione del trentennale dalla caduta del Muro di Berlino e sarà alle Ogr Torino mercoledì 11 dicembre, alle 20.30. Immagini e parole compongono un ordinato racconto a tappe, dal gennaio del 1989 fino al momento che ha cambiato la storia dell’Europa e che, dice Mauro, pareva contenere il «principio ordinatore dell’Europa» e, invece, si trattava di «un miraggio già svanito».
Ezio Mauro, da quale momento parte questo reading
teatrale?
«Dall’inizio di questo incredibile 1989, con
il leader della Ddr a dire che il Muro sarebbe durato altri 50 e
100 anni. Poi si fa una panoramica di cos’era l’Europa nel gennaio
1989, raccontando il clima del Dopoguerra da cui è nato il Muro.
Torniamo indietro, arriviamo al 1961 e a quella notte fra il 12 e
il 13 agosto, in cui fu costruita la prima generazione (in totale
furono quattro “versioni” del Muro, ndr). Quando i berlinesi si
svegliarono e scoprirono che la città era divisa in due. Ho anche
recuperato una telefonata tra Krusciov e Honecker (rispettivamente
leader dell’Unione Sovietica e leader della Ddr al momento della
costruzione del Muro, ndr), che ne spiega le motivazioni».
Come prosegue il racconto?
«Andiamo avanti
mese per mese, con un schermo gigante sul quale compaiono immagini
giocate sul tema del doppio, fino ad avvicinarci al momento in cui
il muro crolla. Affrontiamo le fughe, la Stasi, la vita nella Ddr,
il ruolo degli intellettuali tra collaborazione e resistenza,
quello della Chiesa nell’organizzare il dissenso, fino alle
manifestazioni di massa. La famosa conferenza stampa di Schabowski
(quando il funzionario della Ddr annunciò involontariamente la
revoca dei divieti all’espatrio da una Germania all’altra,
rispondendo al giornalista Ansa Riccardo Ehrman, ndr). Ma ci sono
anche delle musiche, come il famoso concerto di David Bowie del
1987, che si svolse davanti al muro con gli amplificatori rivolti
verso l’altra parte della città».
Che immagini si vedono sullo schermo?
«È
tutto tratto dalla Berlino di quegli anni, la vita della
popolazione, reale e quotidiana, c’è anche la famosa immagine del
soldato dell’Est che scappa all’Ovest. Anche il viaggio di Gorbačëv
per il 40esimo anniversario della Ddr, quando la folla gli urlò
“salvaci”, il regime iniziava a vacillare».
Perché il «principio ordinatore dell’Europa» insito
nella caduta del Muro è «già svanito»?
«All’epoca
abbiamo pensato che la democrazia avesse vinto definitivamente e
che fosse l’unica religione civile universale, mentre il terrorismo
jihadista si è incaricato di dimostrarci che la democrazia non è
così. Poi ci sono stati gli attentati, come il Bataclan, al consumo
quotidiano. Oggi, però, la democrazia è attaccata anche da
sovranisti e autocrati. C’è chi ha teorizzato che non debba
poggiarsi sugli equilibri liberali, ma così rischiamo di trovare
una democrazia rispettata soltanto nella forma. Pensavamo che la
ricucitura dell’Europa con la caduta del Muro riportasse la
democrazia, ci siamo sbagliati».
Oggi di muri ne esistono ancora tanti, molti ne vengono
costruiti. Esiste un «fascino del Muro»?
«No. Siamo
fabbricatori di mostri, creatori di fantasmi, non vogliamo imparare
nulla dalle lezioni della storia. Crediamo di aumentare la
sicurezza dei cittadini escludendo gli altri, perché c’è sempre un
altro da lasciare fuori. In realtà questo è un atto di rinuncia
della politica, che ammette di non essere in grado di governare i
fenomeni e cerca di murarli fuori».
Nel caso di Berlino si trattava di un muro per
contenere, tanti però sono fatti per respingere. È lo stesso
fenomeno?
«In realtà è sempre un atto di abdicazione da
parte della politica, si ricorre a strumenti primordiali che
potevano andar bene per la guerra di Troia. Invece dal 1961 al
1989, nel cuore della civilissima Europa, abbiamo prodotto una
barriera di sabbia, cemento e calce, fissando nella pietra gli
equilibri scritti a Jalta (città in Crimea dove si definirono gli
assetti politici al termine della Seconda guerra mondiale, ndr),
credendo di poter tenere la popolazione e rinunciando al
consenso».
Di Paolo Morelli