Se mia madre mi facesse a pezzi... Dragonetti fa di nuovo centro con l'adolescenza

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Genova, 10/02/2019.

Non siamo davanti al diario di un'adolescente. Neppure di fronte a quella forma di confessione online partecipata, un po' esibizionista, favorita da YouTube. Non è lo sfogo incontenibile di una psiche tormentata e sconvolta. Neanche quel flusso frenetico che si innesca tra amiche fuori dalla scuola o sull'autobus. Nessuna e tutte queste cose insieme è Se mia madre mi facesse a pezzi nessuno mi verrebbe a cercare nuova coproduzione di Teatro della Tosse e Narramondo (5-6 febbraio 2019).  Un monologo-confessione, quello di Aïcha St-Pierre, 13enne tecnicamente indirizzato a una figura precisa che resta nel buio della sala accanto al pubblico: un'assistente sociale, probabilmente dentro un commissariato di polizia, all'indomani di un omicidio.

Questa cornice narrativa, che porterà a capofitto dentro una parabola descrescente, in moto secco e inatteso, è dichiarata solo da un elemento scenico posto in platea: una piccola scrivania a cui siede Elena Dragonetti, che dello spettacolo cura regia e adattamento, per poi prestarsi ad essere personaggio muto, quanto necessario alla performance travolgente di Marta Prunotto, qui al suo debutto nel teatro professionistico, dopo un percorso alla Quinta Praticabile e nei laboratori del Teatro della Tosse. 

Incarnando Aïcha, Prunotto prende il pubblico per il bavero e lo trascina senza interruzione per quasi due ore in un racconto violentemente intimo. Quello che in origine era un romanzo in prima persona Et au pire on se mariera, scritto in francese quebecchese dall'autrice franco-canadese Sophie Bienvenu, e che nel 2017 è diventato un film dall'omonimo titolo per la regia di Léa Pool, ora è anche uno spettacolo teatrale grazie a un lavoro di traduzione durato quasi due anni curato da Sonia Fenoglio e Anna Giaufret, professore associato di Lingua francese nel Dipartimento di Lingue e Culture Moderne dell'Università di Genova.

L'identità inquieta, mutevole, irregolare, dispersiva di una ragazzina di tredici anni che non accetta di essere percepita come una bambina, «Io ho tipo mille anni nella mia testa», diventa un'esuberante cavalcata a bordo di una frenetica solitudine e in preda a un'eccitazione metabolica che gira intorno a un'incontenibile desiderio di amare ed essere riamata.

Prunotto, selezionata proprio alla ricerca di una freschezza autentica (Dragonetti già da qualche anno lavora con interpreti giovani e non professionisti), non risparmia nessuna delle possibili vibrazioni del proprio corpo e usa la voce alternando la versione entusiasta a quella imbrociata, per virare con coraggiosa intensità dentro scene di sesso solo immaginate ma vivide come fotogrammi e quindi, solo in rarissime frazioni, verso quella parte vulnerabile che deve piegarsi a chiedere aiuto. Aïcha è fiera e non può, non vuole, non sa chiedere, ma soprattutto non crede nell'aiuto degli altri.

Scorrono incostanti le parole di Aïcha, si svicolano di continuo da ogni forma di pensiero lineare e abbondano infatti nella traduzione gli "o comunque", i "anche però", ma anche "cazzo", "figata" a restituire questa frammentarietà mentale e immaturità linguistica, mentre sfuggono qua e là residui di doppiaggese o filmese, che si riducono però a qualche sparso "robe così" o "cose così".

Ogni frase sembra arrampicarsi su momentanee passioni, percorrere visioni, perdersi dentro i meandri di sogni a occhi aperti e altri incantamenti notturni. Si cade giù in picchiata in racconti di vita vera dettagliatissimi, si accarezzano superfici mai sfiorate, ci si inoltra al fondo di oscure sensazioni.

Forse ripercorrono anche momenti reali queste parole, ma in una forma trasfigurata che possa restituire un piacere profondo che è fisico e affettivo di cui Aïcha è tanto assetata. Non si tratta di mentire o dire la verità, si tratta di sentire e procedere come se, invece che lasciare campo alla razionalità. Non c'è niente di razionale in questa ragazzina di 13 anni in fuga da un'oscura esistenza ma anche inevitabilmente percorsa dal febbrile stato della metamorfosi adolescenziale. Come solo quelle confessioni tra adolescenti sanno fare, non c'è alcuna distinzione tra ciò che è e ciò che si crede sia, nessuna differenza tra aver sognato qualcosa e averlo fatto davvero. La pelle è sottile, tutto è urto e incandescenza.

Si salta da un discorso all'altro senza chiudere mai una traccia, le avventure sono tutte nuove e possibili, il mondo è «una figata» o l'incubo di una madre che ti soffoca perché ti richiama alla cruda realtà della vita, a uno sguardo realista, a delle responsabilità considerate insignificanti. Ma soprattutto la madre è odiosa perché ricorda a Aïcha chi nella sua vita non c'è più: Akim, il papà algerino che non era proprio suo padre, ma che lei viveva come tale. L'epoca di giornate trascorse sul divano, lui con qualche birra di troppo in corpo, lei rapita di fronte a film d'azione e violenza, vicini vicini a farsi delle coccole che forse andavano oltre la relazione tra un adulto e una bambina di 9 anni. Sono queste le briciole di felicità, il sogno infranto della miglior forma di famiglia possibile, che Aïcha contesta alla madre, non perdonandole la scelta di aver cacciato Akim.

L'odio per lei è tanto grande quanto grande e maliconico l'amore per lui. Mettendosi in competizione con la madre, attribuendole un ruolo negativo, la figlia idealizza la sua storia d'amore con Akim, costruisce l'alibi della gelosia per giustificare la brutalità della madre e nega una realtà dei fatti troppo difficile da interpretatre, distruggendo così l'unica figura potenzialmente positiva e costante della sua vita. La madre non è ciò che è ma diventa per Aïcha il mostro, l'unica forma di alterità rimasta su cui gettare tutto il male interiore. Presa da un lavoro all'ospedale che la rende assente, spesso anche la notte, la madre di Aïcha è un'altra invenzione favolosa - in piccoli quadri capace di tenerezza verso la figlia - di una mente che corre sempre ai 100 all'ora sperando di superare quel dolore che preme alle sue calcagna, ma che invece le cova dentro.

Ritratto senza sconti di un'adolescenza vissuta in una periferia di Montreal tra prostitute trans, nessuna vera amicizia, nessuna traccia della scuola e un desiderio incontenibile di ritrovare calore umano, la storia di Aïcha si avvolge sempre più ossessivamente intorno all'incontro fortuito con un ragazzo molto più grande, Baz, che diventa il principe azzurro. Baz vive la ragazzina come una sorellina, cerca di offrirle protezione, un luogo dove rifugiarsi, provando in tutti i modi a definire un preciso confine nella relazione. Baz non vuole essere l'ennesimo trauma in un vissuto già pieno di cicatrici. Baz è diventato però il cavaliere incontestato delle fantasie di Aïcha e lei non è disposta a fare a meno di lui.

La forza emotiva ed evocativa delle parole, il dolore e l'inquieta carica vitale di un'epoca della vita trasformano questo monologo in una sorta di film d'azione mozza fiato (sia per l'interprete che per il pubblico). Mentre la scenografia tenta di offrire una distanza tra ciò che è e ciò che non è, il personaggio e la sua versione della storia deflagrano e non si contiene l'onda di un vissuto, accordato su alcune tracce sonore, ora a calcare sull'acceleratore ora a indugiare su qualche residuo di romanticismo, per una regia che è chiaramente votata a sostenere il faticoso lavoro di interpretazione per condurlo verso quello che si rivela come un indiscutibile successo.

Se mia madre mi facesse a pezzi, nessuno mi verrebbe a cercare

adattamento e regia Elena Dragonetti

con Marta Prunotto

tratto dal romanzo Et au pire on se mariera di Sophie Bienvenu

traduzione Sonia Fenoglio e Anna Giaufret

assistente alla regia Beatrice Marchetti

scene Lorenza Gioberti

costumi Francesca Marsella

produzione Teatro della Tosse  e Narramondo Teatro

con il sostegno del Conseil des arts du Canada / Canada Council for the Arts, dell'Ambasciata del Canada a Roma, dell'Università di Genova e del Dipartimento di Lingue e Culture Moderne.

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