Genova, 24/07/2023.
Rossella Bianchi è la voce di una Genova lontana nel tempo che, nel dedalo del suo centro storico, custodiva già negli anni Sessanta l'embrione di una tematica che molti anni dopo, nel 21esimo secolo, sarebbe stata discussa non più sottovoce tra le mura dei bassi, ma su tutti i media, soprattutto i social. I pride e il termine transgender, che oggi conosciamo così bene, nascono anche dalle storie dai travestiti dei caruggi, che cinquant'anni fa iniziarono la sacrosanta lotta per affermare la propria libertà di essere.
Anche grazie alle loro storie e azioni ora la comunità Lgbtqi+ sta trovando il suo giusto spazio nel mondo, per dichiararsi e per vivere alla luce del sole. Le difficoltà e gli ostacoli da superare sono ancora tanti, ma si sta avvicinando sempre di più il tempo in cui non sarà neppure più necessario definirsi (a meno che non lo si desideri) e finalmente ritenersi semplicemente parte di un unico solo enorme gruppo, quello degli esseri umani, differenti ma uguali, con il diritto di vivere una vita piena e il più felice possibile.
Ma cosa succedeva in passato, ad esempio negli anni Sessanta, quando il 31 dicembre 1964 Rossella arrivò nel ghetto di Genova, quello che ora ospita piazza Don Andrea Gallo? Per arrivare a quel punto dobbiamo fare ancora qualche passo indietro, in Toscana, a Lucca, dove Rossella Bianchi nacque Mario.
Per raccontare una vita non bastano certo poche ore, ma ci provo e incontro Rossella Bianchi in un afoso pomeriggio di luglio, trovando refrigerio dal sole accecante sul suo bel terrazzo, pieno di fiori e piante provenienti da tanti paesi diversi, sorseggiando un tè freddo alla pesca, tra chiacchiere, ricordi, qualche lacrima, sorrisi e risate. Tutto quello che entra in una vita, insomma, compreso un caffè a metà pomeriggio.
Partiamo dall'inizio, dal piccolo Mario, nato in provincia di Lucca negli anni Quaranta, in un paesino dove scarseggiava tutto, anche la corrente elettrica, dove non c'erano né la Tv, né i giornali e l'eco del mondo arrivava in ritardo: «Da subito, quasi senza rendermene conto, sono stata attratta dai giochi di mia sorella, piuttosto che da quelli di mio fratello. Non c'erano molti soldi, quindi parliamo di balocchi un po' rudimentali, ma tra il carretto di mio fratello e le bambole di pezza di mia sorella, queste ultime erano sicuramente le mie preferite, con cui giocavo, senza farmi scoprire da mio padre, avendo però la complicità di mia madre». Mario è piccolo, non capisce il perché di quella sua attrazione, ma non gli dà troppo peso fino a quando, una sera, gli amici di suo papà Cecco, durante una partita a carte lo apostrofano con una parola che oggi solleva giustamente polemiche, (ma qui siamo negli anni Quaranta ed è necessario calarsi in quell'epoca): Povero Cecco, avere un figlio finocchio è una disgrazia, peggio di una malattia!
«Io non conoscevo neppure il vegetale, figuriamoci il significato nascosto di questo termine, che finalmente compresi solo parlando con i ragazzini più grandi del paese che, dopo aver tergiversato un po', mi confessarono che era riferito a chi, invece che divertirsi facendo l'amore con le donne, lo faceva con gli uomini, come succedeva per il sarto del paese. Povero sarto! Era bravo, ma in paese lo consideravano quasi un fantasma, non si vedeva mai», racconta Rossella con uno splendido accento toscano, che dona al racconto un colore in più.
Crescendo, arrivano anche le prime esperienze, sempre nel gruppo dei ragazzi più grandi del paese, eccitati dalle foto di Silvana Pampanini, attrice che all'epoca era considerata una star, ma che tutto sommato non disdegnavano la sperimentazione delle prime forme di sesso tra di loro: «Quando provai, non mi dispiaque per niente, anzi mi incuriosì, ma lo feci più per essere accettato dal gruppo, piuttosto che per reale interesse».
Rossella è sempre stata sveglia, dotata di un cervello attivo, che non si addiceva ai campi, ma più ai banchi della scuola, che frequenta con profitto, portandosi a casa un diploma in ragioneria: «Andavo in classe con le magliettine colorate e i capelli schiariti dalla camomilla o dall'acqua ossigenata. I miei compagni e i prof facevano supposizioni, ma io ero già avanti chilometri rispetto a loro e tutto sommato si può dire che non mi nascondevo neppure troppo. Ero più aperto, più colto rispetto a loro, grazie alle mie conoscenze tra la comunità gay di Lucca che mi avevano fatto conoscere autori come Caldwell, Steinbeck, Proust e Neruda».
È proprio una frase di Pablo Neruda, odiatemi per ciò che sono, basta che non mi amiate per quello che non sono, che Rossella decide di scegliere per farne il cavallo di battaglia della propria trasformazione, seppur non ancora fisica, salutando definitivamente e con affetto il piccolo Mario dentro di lei: «A Lucca c'era un piccolo bar, nel retro di quel posto tutti potevano essere e comportarsi secondo la loro reale natura. Tra di loro c'erano anche uomini sposati, ma lì dentro erano Brigitte (in onore della Bardot), la Dentista pazza, un medico un po' schizzato, l'Olandesina Volante, che millantava origini straniere e che sfrecciava senza pedalare su una specie di bicicletta a motore tra i giardini della stazione e le Mura che circondano la città. Io ero stata ribattezzata Rossella perché, durante una conversazione su una mia delusione d'amore, avevo citato la famosa frase di Via col vento domani è un altro giorno, perché volevo lasciarmi abbastanza velocemente quella tristezza alle spalle». Ecco il nome della nuova bambina, come la chiamavano le altre del bar di Lucca, che però Rossella sentiva di dover lasciare presto. Non prima di abbattere i muri di un bigottismo ipocrita, che di giorno si annidava negli insulti della gente che vedeva sfilare Rossella orgogliosamente vestita di colori sgargianti per le vie del centro storico di Lucca, ma che di notte suscitava l'interesse di molti.
Una cittadina deliziosa, ma troppo piccola e stretta perché Rossella Bianchi potesse sbocciare come i fiori che oggi colorano il suo bel terrazzo, da cui si intravedono il mare e la Lanterna di Genova. Il prezzo di essere, parafrasando il titolo della biografia di Rossella Bianchi, lì a Lucca sarebbe stato troppo alto: «Ad un certo punto i miei mi obbligarono a stare in casa, non volevano che uscissi, per evitare problemi. Inoltre, durante un mio lungo ricovero a causa di una brutta peritonite, trovarono le lettere che scrivevo a degli amanti immaginari, quindi ormai avevano avuto la conferma del mio orientamento. Sopportavo la reclusione solo perché sapevo che, dopo il diploma, me ne sarei andata».
Rossella si diploma con voti talmente alti da essere contattata direttamente dal Monte dei Paschi di Siena, dalla Banca Bertolli e da una concessionaria Fiat: «I colloqui nelle due banche andarono benissimo, ma sia nel primo, sia nel secondo caso, incontrai due persone che conoscevano il mio mondo perché calndestinamente lo frequentavano, e non se ne fece più nulla. Evidentemente mi avevano osteggiata! Alla Fiat non ci andai neppure e a quel punto decisi che con Lucca avevo chiuso, così feci armi e bagagli e andai Roma».
Lì Rossella entra timidamente nel vortice della Dolce Vita di via Veneto, in quella Roma capitale del cinema che brulicava di attori dai nomi altisonanti, ma anche di miglialia di comparse, che lavoravano soprattutto nei kolossal. Il viso di Rossella, che all'epoca vestiva ancora abiti maschili, era interessante ed efebico, ma la fortuna tardava ad arrivare: «Incontrai tante persone che promettevano e promettevano, ma concretamente non succedeva nulla. Stavo in una pensioncina da 500 lire a notte, ne spendevo 30 per mangiare qualche supplì». Il vento però cambia e dopo un provino tra il sexy e il rocambolesco con il regista Franco B., Rossella conosce una attore caratterista, Marcello di Folco, che poi diventerà Marcella, che la introduce nel mondo delle comparse, ma anche dei generici, ossia di coloro che riuscivano a guadagnare fino 50mila lire a giornata: «Uno di questi film era un musicarello e io dovevo ballare il twist, ma ero totalmente incapace di muovermi a ritmo di musica, così il regista si arrabbiò». A Marcè, ma m'hai portato l'unico frocio che non sà ballà?: con questa frase il sogno romano di Rossella finisce.
Torna a Lucca, per curare una brutta epatite contratta mangiando una scatoletta di tonno avariato. Ripresasi incontra la Lollo e la Silvana Mangano, due travestiti lucchesi momentaneamente in città per le feste di Natale, che la invitano a passare il Capodanno del 1965 a casa loro, a Genova, nell'appartamento arredato con gusto in quel vico delle Cavigliere che faceva parte dell'antico ghetto degli ebrei. Con Rossella parte anche l'amica del cuore Deborah, al secolo Marcello.
Lì si apre un mondo nuovo, un microcosmo fatto di prostitute che lavoravano nei bassi, di marinai americani di ritorno dal Vietnam, di sesso, di libertà, di colore: «Mi sembrava di essere Alice nel Paese delle Meraviglie. Lì conobbi la prima operata, un'americana di San Francisco dai capelli rossi e gli occhi verdi, che mi truccò, mi cotonò i capelli che portavo già lunghi e mi fece indossare un abitino di chiffon e dei sandalini». Quella sera Rossella è talmente felice da uscire di casa nella notte e passeggiare nei caruggi a tre metri dal suolo per la gioia, incurante dei tacchi e della temperatura rigida del primo gennaio 1965.
L'entusiasmo iniziale viene però frenato: «Litigai con la Lollo, che mi buttò fuori di casa e finii a dormire in uno stanzino in via di Ravecca, ospitata da un barista gay, che lavorava al Bar Belgio di via Gamsci. Dormivo con un occhio aperto e uno chiuso, perché avevo il terrore che i topi entrassero dai vetri rotti. Una notte, presa dai crampi della fame, mi alzai al buio e per sbaglio presi dal frigo una scatoletta di cibo per gatti, che mangai per errore. Lì probabilmente toccai il fondo. Uscii a piangere quando una prostituta livornese, Donatella, mi notò e mi prese con sé, ospitandomi all'Hotel Florida di piazza Fregoso».
Rossella a questo punto viene presa sotto l'ala protettrice di questa gentile anima, che la porta a mangiare da Marechiaro, il ristorante di Carmela Ferro, la donna che negli anni Sessanta ha partorito una massiccia quantità di figli per evitare il carcere e che ha ispirato il personaggio interpretato da Sophia Loren nel film di Vittoria de Sica Ieri, oggi e domani: «Mi accarezzò la testa, notando il mio appetito da lupo e mi disse che lì un piatto di pasta calda per me ci sarebbe sempre stato». Rossella si commuove e anche io, che sto ad ascoltare queste storie di vita, affascinata, con la lacrima pronta a sgorgare, perché l'umanità, a volte, si trova nei posti più impensabili, nella solidarietà tra anime che si incontravano al buio di una via Prè che ormai non c'è più. Come non ci sono più tante di quelle persone che abitavano il Ghetto, morte a causa di malattie, omicidi e per la droga che ad un certo punto ha preso a circolare in maniera violenta in quei luoghi.
Rossella Bianchi è ancora qui, è forse una sopravvissuta? «Sì, lo sono e mi sento sia spaventata sia orgogliosa a definirmi tale. La ragione precisa non la so, forse è un mix di tante cose, tra fortuna, casualità, intelligenza, cultura, resilienza, il fatto che io e solo io mi sono scelta questa vita e che ho sempre saputo di dover accettarne sia il bello, sia il brutto, come le retate della polizia che ci portavano a passare alcune notti al carcere di Marassi».
Proprio a Marassi Rossella, che nel 1965 vestiva ancora abiti maschili, trascorse ben 109 giorni, accusata ingiustamente di aver rubato un'auto: «Il magistrato sapeva della mia innocenza, ma per le sue convinzioni non mi liberò. Finalmente il giudice che si occupava del mio caso cambiò e quello successivamente in carica mi permise di uscire e venni assolta per non aver commesso il fatto».
Dopo un breve ritorno a Lucca, Rossella trova lavoro all'Automobile Club di Savona, distinguendosi anche in questo caso per intelligenza e prontezza nell'apprendere nuove mansioni. L'obbligo imposto dal capoufficio a modificare le sue frequentazioni nell'ambito della vita privata la convinsero però a tornare a Genova nell'estate del 1966, quando i gay che popolavano il ghetto erano ormai tutti vestiti in abiti femminili: «Erano abbigliate in maniera chic, avevano tante aragoste a disposizione (le banconote dell'epoca avevano un colore rosa acceso). A quel punto mi cotonai i capelli, mi infilai il giornale accartocciato nel reggiseno per riempirlo e da lì iniziai a lavorare». Prostituendosi, per paradosso, Rossella si riappropria della sua dignità, perché finalmente non si nasconde più e ritrova se stessa, un po' come in quella gelida notte di Capodanno del 1965, quando indossa lo chiffon per la prima volta.
Nonostante le difficoltà e i magoni, Rossella, ora che è una signora bionda dalla pelle abbronzata che ama prendersi cura dei propri fiori, si ricorda di quegli anni come quelli più belli della sua vita, pur notando le differenze con l'epoca attuale: «In quegli anni essere transessuali significava automaticamente prostituirsi, ora le cose sono molto cambiate. La percentuale di chi si prostituisce è molto bassa, grazie all'appoggio delle famiglie e alla possibilità concreta di trovare un lavoro».
Un'altra cosa che differisce dal passato è l'uso degli ormoni, che negli anni Sessanta erano venduti sottobanco a prezzi salatissimi da alcune farmacie e venivano utilizzati in maniera fai da te, provocando anche alcuni danni: «Chi non se li poteva permettere faceva anche peggio! Alcune prendevano la cera da pavimenti, la scaldavano e se la iniettavano direttamente nei muscoli del petto, modellandola poi ancora calda per dare la forma al seno. Sono morte tutte intossicate prima di compiere i 40 anni».
Attualmente la situazione è differente: gli ormoni si assumono sotto prescrizione medica, dopo la diagnosi di disforia di genere, e le operazioni di riassegnamento sono sicure, anche se c'è chi sostiene che forse si sia passati da un estremo ad un altro, vista la sempre più giovane età di chi inizia a sottoporsi alle cure: «Non è ancora ben chiaro alle persone che, una volta subita l'operazione (quella che al giorno d'oggi si definisce bottom surgery) non si torna più indietro! La sensibilità fisica cambia, non si ha né più quella dell'uomo, né quella della donna. Le aspettative vengono tradite, si deve essere ben consapevoli di ciò che si acquisisce, ma anche di quello che si perde. E questo lo possono sapere solo ed esclusivamente coloro che attraversano questa esperienza, ancora più dei medici, che possono sì fornire tutte le informazioni tecniche, ma le vere sensazioni non le hanno provate».
La domanda nasce spontanea: sarebbe il caso che persone trans potessero appoggiare e consigliare chi sta intraprendendo il percorso di transizione? La sentenza è ardua, ma sicuramente pone le basi per un dibattito importante.
Il termine importante calza a pennello per raccontare un'altra pagina del libro della vita di Rossella, ossia il suo rapporto con Don Andrea Gallo, il prete degli ultimi: «Quando le mie compagne di avventure ed io lo conoscemmo è come se mi si fosse aperto un mondo nuovo. Il piccolo Mario fu anche chierichetto, ma ricordo che i preti a cui mi confessavo mi suggerivano di non far conoscere al mondo la mia vera attitude, perciò sono sempre stata piuttosto diffidente nei confronti del clero, pur definendomi credente, ma con dei dubbi. Additrittura ci fu un tempo in cui pensai di farmi prete, perché era una valida alternativa al lavoro nei campi e alla prospettiva terrificante del matrimonio».
All'epoca dell'incontro tra Rossella e Don Gallo a Genova vigeva l'ordinanza comunale secondo cui i bassi avrebbero dovuto essere chiusi, per immoralità: «In realtà noi eravamo tutte proprietarie dei bassi e grazie a noi i vicoli del centro storico erano puliti e ordinati, proprio perché ci tenevamo a lavorare in un ambiente confortevole. Eravamo apprezzate anche dai commercianti della zona, che ci consideravano una specie di baluardo di civiltà, che teneva a bada spacciatori e atti di criminalità. Chiedemmo il loro aiuto e in tantissimi firmarono una petizione, chiamata Giù le mani da Bocca di Rosa, per poterci garantire la possibilità di rimanere».
La petizione però non è sufficiente, come non lo sono avvocati e appelli. Qui entra in gioco Don Gallo, che Rossella conosce grazie all'intercessione di una suora brasiliana: «Non mi fidavo molto, ma appena entrata nel suo ufficio lo trovai a discutere con l'assessore del patrimonio urbanistico: Assessore, le vede queste ragazze? Hanno trovato il modo per non morire di fame, avete un'alternativa valida da offrirgli oppure no? E allora le lasciate in pace!».
Il primo round è vinto, ma non la battaglia a lungo termine e allora a Don Gallo si accende una lampadina, che si concretizza della realizzazione di un calendario composto da foto delle abitanti dei bassi, il cui ricavato delle vendite sarebbe andato in beneficienza e avrebbe supportato l'associazione no profit Princesas: «Era il suo modo per volerci far conoscere alla società, che lui riteneva responsabile della nostra situazione perché, non avendoci mai accettate, ci aveva in qualche modo costrette a prostituirci. Ci compravano la notte, ma si vergognavano di noi alla luce del sole».
Le vendite del calendario sono un successo: le copie vendute sono oltre seimilacinquecento e alla presentazione per la stampa il Don è colpito dal discorso di Rossella: «Quando gli confessai di averlo scritto io, mi spronò a continuare a scrivere e da lì nacque In via del Campo nascono i fiori, il mio libro del 2014». «Ricordo il Don mentre legge il manoscritto, circondato dal fumo del suo sigaro», continua Rossella, «avevo paura che censurasse le parti più scabrose, ma mi guardò da sotto gli occhiali e se ne uscì con Questo libro si pubblica così com'è! Non si cambia manco una virgola!». Purtroppo Don Gallo non riesce a vedere la pubblicazione del libro, che viene pubblicato dopo la sua morte dalla casa editrice Imprimatur di Reggio Emilia.
Il pomeriggio è passato tra racconti, commozione, risate, ricordi e altre mille sensazioni. Ma non è finita, perché per raccontare una vita non bastano poche ore, ma decidiamo di salutarci parlando di un tratto umano ben preciso: gli occhi. Gli occhi delle abitanti del Ghetto di Genova, ritratti così nitidamente dalla fotografa genovese Lisetta Carmi nel libro I travestiti: «Lei ci diceva sempre che nella nostra allegria si nascondeva tanta tristezza e che molte di noi usavano una maschera per celare le mancanze. Di amore, di affetto, di prospettive. Avere l'etichetta di T.A, traviato anormale, come ci schedavano in questura tanti anni fa, provoca danni all'anima che in alcuni casi sono irreparabili».
Conoscere Rossella Bianchi è stato come accendere la luce su un mondo rimasto al buio per troppo tempo, che ora forse non esiste più, ma che ha fatto da prologo alle lotte che nel 2023 ci hanno portato a fare enormi passi da gigante, seppur non ancora definitivi, per ritenere risolte le questioni legate alle discriminazioni.
Questioni che, anche secondo Rossella, vanno al di là dell'importanza dell'uso dei pronomi, delle etichette queer o non binary, ma che puntano ad un solo obiettivo da raggiungere: la libertà di essere.
Di Paola Popa