Genova, 02/11/2015.
Silvio Raffo mi è stato presentato mentre visitavo una mostra presso la galleria Le Tracce come uno dei maggiori poeti italiani. La cosa mi ha incuriosito, e dopo un primo scambio di battute mi sono ripromesso di approfondire la sua conoscenza. Lui, docente per molti anni presso il Liceo Classico Ernesto Cairoli di Varese e ora presso il Liceo Linguistico G.B. Vico, sempre a Varese, è conosciutissimo. Nella sua città è per tutti il professore e dirige il centro di cultura creativa La Piccola Fenice.
Da come si presenta, Silvio Raffo è davvero un personaggio: elegante, con una certa ricercatezza nella scelta dei colori degli abiti, sempre in pendant, ha una parlata scorrevole, infarcita di richiami a versi poetici.
Ho sempre pensato alla poesia come un accidente
- nel senso buono del termine -, come una pulsione improvvisa e
inaspettata dell'anima, che attraverso parole dà forma in modo
sintetico e singolare al sentire intimo e universale.
Ho sempre pensato che sia la poesia a fare i
poeti, che accolgono ciò che in fondo è il frutto di una
serendipità, ovvero la capacità di arrivare in modo
casuale a una scoperta profondamente importante per sé, mentre si
stava cercando altro.
Grazie a Raffo ho scoperto un nuovo pensiero: la poesia come stile di vita; la poesia come compagna insostituibile della propria esistenza. Non è un caso che Silvio Raffo sia stato attratto da chi la poesia l'ha praticata, facendone il senso della propria vita, ovvero da Emily E. Dickinson. Raffo della Dickinson è il traduttore ufficiale, avendone curato per la Mondadori, l'edizione dei Meridiani; ha tradotto 1174 poesie sul totale di 1775 scritte dalla stessa.
So che fin da ragazzino amava scrivere sia poesie che in
prosa. Che cosa ha sentito crescere in lei nel tempo?
«L'amore per la scrittura in maniera sempre più consapevole.
Fin dall'età di dodici-tredici anni il modo di esprimere me
stesso che mi veniva più spontaneo era la scrittura. Non che io
avessi problemi di comunicazione - sono sempre stato un soggetto
portato alla relazione, estroverso e disinvolto - solo che la
maniera migliore per me era già a quell'età una sorta di
creazione segreta, che affidavo al mio quaderno. Ho
iniziato con brevi racconti gialli (ero un divoratore di gialli già
in seconda media, andavo a saccheggiare le bancarelle di Milano con
somma gioia), in cui personaggi piuttosto terrificanti ordivano
trame criminose piuttosto efferate - ero anche molto influenzato
dai film che vedevo quasi quotidianamente in un piccolo cinema
vicino a casa, di cui avevo la tessera. I primi titoli: Il
gatto della strega; Una stilla di odio; Terrore
nella pineta. Più tardi, in quarta ginnasio, mi volsi alla
poesia, certamente influenzato dalla mia straordinaria
professoressa di lettere, una zitella molto eccentrica che mi
soggiogò totalmente. Le prime poesie le scrissi in greco, poi in
italiano venne la prima composizione, una quartina: Come
crudele la pioggia / che riga di lacrime il volto / disfatto del
vetro».
I suoi temi, seppur nelle diverse espressioni tra poesia
e prosa, traspirano una profondità interiore. Per chi scrive le sue
poesie, più per Dio o per i lettori?
«Né per Dio, né
per i lettori, ma per un mio profondo bisogno interiore di dare
sempre forma a ciò che sento».
Credo che scopo di un artista sia afferrare la bellezza.
Dove sente maggiormente di riuscirci?
«Sia in poesia che in prosa, quando riesco a giungere agli strati
più segreti della coscienza. Prosa e poesia si alternarono, o
meglio convissero, per tutto il periodo del liceo, durante il quale
vennero alla luce anche due romanzi, Alice e il vento e
Fantasmi allo specchio. Le tematiche erano sempre
psicologiche, incentrate su problemi esistenziali, soprattutto
sulla diversità. Non mi è mai interessato il discorso storico o
sociale, sempre e soltanto quello del dark side,
dell'io profondo e delle sue sfumature, in una dimensione che
presto è diventata quella paranormale o metafisica. Dopo Mio
padre René, il mio primo romanzo di un certo spessore, sono
nati L'erba grama e Lo specchio attento,
entrambi piuttosto autobiografici, il secondo dei quali sul tema
del doppio, che ha affascinato tutta la mia adolescenza: credo che
la mia maturità di narratore sia stata già raggiunta in questa
prova dei primi anni Settanta. Lo slittamento verso il fantastico -
altro filone da me molto coltivato - è avvenuto con Favola del
secondo tempo, in cui immaginavo un al di là per i suicidi.
Parallelamente proseguiva la mia produzione poetica, che già dalla
prima silloge, I giorni delle cose mute, rivelava una
spiccata tendenza al lirismo sostenuta da un grande amore per i
greci ma anche per i decadenti e crepuscolari».
Si sente più narratore o poeta?
«Non so rispondere alla domanda. Mi sento entrambi. La prosa
narrativa mi fa una compagnia più duratura e complessa, nel senso
che quando scrivo un romanzo sono in contatto coi miei personaggi
in modo vitale e per mesi, mentre la poesia è una serie di
folgorazioni momentanee, di flash immediati. Quel che ho
sentito crescere dentro di me negli anni è stata una sempre più
preziosa consapevolezza della mia vocazione. Non potevo essere che
uno scrittore: senza la scrittura la mia vita non avrebbe avuto un
senso».
Come professore quali conoscenze riesce a trasmettere
alle nuove generazioni grazie alle sue doti di poeta e
scrittore?
«Insegnare è stata un'avventura meravigliosa. Ho
comunicato, forse anche troppo, l'amore per la Bellezza e la
Poesia a due generazioni di giovani, che ne hanno tratto beneficio
in modi diversi: sono convinto che non ci sia altra possibilità di
salvezza per qualsiasi essere umano minimamente colto, se non il
mantenersi in contatto con questa dimensione di purezza spirituale
salvaguardandola dalla contaminazione e dalla banalità in agguato
nella società consumistica e tecnologica. Mi rendo conto che queste
espressioni possono sembrare luoghi comuni, ma è la pura verità. In
un'epoca come la nostra, solo chi riesce a mantenersi puro può
salvarsi dal grigiore e dal soffocamento dell'impersonalità e
della volgarità dilagante, poiché viviamo nell'era profetizzata
da Oscar Wilde in cui si conosce il prezzo di tutto e il valore
di niente. Credo di riuscire a trasmettere contenuti preziosi
proprio per il fatto di essere scrittore e poeta, e non solo
docente. Si tratta di comunicazioni aventi a che fare con le realtà
più intime del soggetto, che solo la poesia riesce ad illuminare.
La letteratura, l'arte, la poesia, se opportunamente coltivate,
aiutano ad intellegere (intus legere) meglio la
realtà, e confortano lo spirito perché sono le uniche a non aver a
che fare con il materialismo del contingente».
Come traduttore, specie nel campo poetico, dove la
sintesi del dire è fondamentale, è più facile o più difficile per
chi scrive come lei poesie con un proprio stile?
«Decisamente facile, perché scelgo sempre poeti a me affini e lo
stile, quanto più è originale, tanto più è completo e in grado di
rigenerare lo stile altrui. La traduzione è stata per me non un
esercizio, ma un'altra vocazione, la terza. Stare in compagnia
dei poeti e delle poetesse che ho tradotto mi ha arricchito
enormemente. È ovvio che solo un poeta può tradurre poesia, e le
mie scelte sono sempre state guidate dalla profonda affinità,
ancora una volta col mondo greco (Saffo, Stratone) e anglosassone
(Dickinson, Bronte, Teasdale, Parker, St. Vincent Millay, Rossetti,
Cope, Larkin)».
Da cosa nasce la passione per Dickinson?
«Fu un colpo di fulmine in quarta Ginnasio, quando vidi il suo nome
e la sua immagine in una pagina dell'antologia con la poesia
Per fare un prato. Io stesso non riesco a spiegarlo
razionalmente. Ecco il testo intero della poesia che mi aveva tanto
colpito: To make a prairie it takes a clover and one bee - one
clover and a bee and revery - The revery alone will do if bees are
few (Per fare un prato occorrono un trifoglio e un'ape
- Un trifoglio e unìape e il sogno - Il sogno da solo basterà se le
api sono poche). Fu una specie di folgorazione,
un'epifania e insieme un arcano riconoscimento,
chissà. Mi capitò qualcosa di simile, ma un po' meno
intensamente, con la pagina di Un secolo di Poesia,
dedicata ad Antonia Pozzi, dove figuravano le poesie
Pudore e Morte di una stagione. In effetti, Emily
e Antonia sono rimaste per sempre le mie sorelle in
poesia, anche se dalla prima mi è provenuto il messaggio più
stigmatizzante. Sì, Emily interpreta il poeta come colui che
distilla / essenze incomparabili / dalle specie più comuni,
che è esattamente quello che ho sempre pensato anch'io.
Di Giorgio Boratto