Bohemian Rhapsody: non la solita recensione del film sui Queen

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Magazine, 06/12/2018.

Questa non vuole essere una recensione, neanche un lungo elenco degli errori riferiti a imprecisioni cronologiche o di look, di cui tanti hanno già scritto, tra l’altro, e neppure una sorta di dissertazione a sostegno della tesi secondo cui Bohemian Rhapsody è un film (o meglio un biopic) che può soddisfare solo gli occhi e la curiosità superficiale di coloro che non conoscono a fondo i Queen. Perché effettivamente – e io sono una di quelli – i fan dei Queen sono pignoli all’eccesso, gelosi della storia delle quattro Regine a livelli quasi patologici: loro conoscono tutto, segni zodiacali di Freddie, Brian, Roger e John compresi, e non li si può fregare tanto facilmente.

Questo vuole essere solo il racconto delle emozioni che ha suscitato la visione di Bohemian Rhapsody in un’appassionata di musica, che vanta orgogliosamente una storia d’amore con i Queen che dura da oltre trent’anni, che li considera come parte integrante della propria educazione esattamente come i libri che ha letto e le scuole che ha frequentato e che non vuole, per una sola volta e solo una, scovare l’errore, ma godere tra ricordi e nostalgie della compagnia di Fred, Rog, Bri e Deaky. Anche se non gli originali, ma di quelli interpretati da quattro attori sui quali spicca un intenso Rami Malek. A proposito, dimenticatevi per un attimo dei paragoni di taluni che lo comparano al buon Fabio Rovazzi, perché non è proprio il caso, in questa sede.

Bohemian Rhapsody è un racconto emozionato di quella che è stata la saga di uno dei gruppi più innovativi, pomposi, geniali e manieristici mai apparsi sul globo terrestre. Quattro musicisti che hanno scardinato in maniera elegante e teatrale il concetto stesso di rock, proprio come lo ha fatto il loro capolavoro, Bohemian Rhapsody, una mini opera della durata di sei minuti di lunghezza, che a parere mio modestissimo rientra di diritto nel Patrimonio Culturale dell’Umanità. I Queen erano barocchi, fiammeggianti, stilosi all’inverosimile e unici: questo nel film viene rappresentato in maniera importante, così come viene riportato fedelmente l’amore che li univa e che ha trasformato la band in una vera e propria famiglia, con tutti gli annessi e i connessi litigi, incomprensioni e rappacificazioni, anche se talvolta eccessivamente  romanzate.

Lo si evince nelle caratterizzazioni dei personaggi, anche se a volte un po’ troppo a tenuta stagna: Freddie/Rami Malek il genio controverso, Brian May/Gwilym Lee l’equilibrato, Roger Taylor/Ben Hardy il seduttore incazzoso e John Deacon/Joseph Mazzello l’ingenuo ma solido. Lo si nota nelle scene che raccontano i loro scontri con i produttori esecutivi che di Bo Rhap non ne volevano sapere e sono poi finiti per mangiarsi le mani fino ai gomiti per il resto della loro vita. Piccola curiosità: i vari produttori poco lungimiranti sono stati condensati e rappresentati nel personaggio di Ray Foster (interpretato da Mike Myers), che butta lì anche un rimando (la battuta nessuno scuoterà la testa in macchina ascoltando questa roba) al di lui film Fusi di testa e alla epica scena che lo vedeva scatenarsi in compagnia di quattro amici in macchina, proprio sulle note della sezione rock di Bohemian Rhapsody

Una menzione particolare va alla cura dei look, nelle due decadi raccontate, ossia gli anni Settanta fatti di abiti scintillanti e gli anni Ottanta fatti di pelle, borchie e Adidas ai piedi.

Rami Malek ha colto e fatto sue le debolezze, le insicurezze, ma anche la forza e la convinzione che albergavano nei meravigliosi occhi neri e a mandorla di Freddie. Gwilym Lee e Joseph Mazzello sono talmente convincenti nei ruoli di Brian e John da risultare quasi imbarazzanti, a tratti (dai movimenti delle sopracciglia alla posizione delle mani mentre fingono di suonare). Un po’ meno Ben Hardy, nei panni di Roger, ma ad un biondo si perdona tutto.

E le emozioni di cui parlavo? Vi spiego: seguo i Queen da quando avevo dieci anni, da poco prima che Freddie volasse via di qua e ho sempre avuto, nel tempo, la stessa sensazione: pura gioia. Quella che ti morde lo stomaco e ti attanaglia meravigliosamente il cuore. Ecco io questa gioia nel film l’ho rivissuta. Non sono sicura che il merito sia stato tutto della regia, degli attori o delle scene, perché la forza di Bohemian Rhapsody è la storia stessa dei Queen. E questa non è frutto di un’abile sceneggiatura, è pura verità, quindi è probabile che il regista Bryan Singer, nell’enormità del progetto, abbia avuto vita facile o per lo meno un’ottima base di partenza: i Queen.

In sala ho sentito parecchi che si soffiavano il naso e non credo fosse colpa delle basse temperature di questo inverno. Ho percepito commozione, nelle scene in cui si vede un Freddie intimidito dalla scoperta della sua bisessualità, solo e circondato da sanguisughe, come quel personaggio orribile di Paul Prenter (interpretato da un viscido, ma solo per copione, Allen Leech) oppure sopraffatto dalla morbosa curiosità dei giornalisti. Ho sentito amore quando venivano raccontate le storie con Mary Austin (Lucy Boynton) e Jim Hutton (Aaron McCusker). Questo significa che qualcosa al pubblico è arrivato.

Vedetela così, Bohemian Rhapsody è un vettore che trasporta, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’enorme e inesauribile senso di nostalgia che ha provocato la morte di Freddie e la fine dei Queen (perché i baracconi con Adam Lambert, anche no!). I Queen mancano come l’aria e questo film è una piccola boccata di ossigeno. E questo, concedetemi la nota emotiva, fa passare in secondo piano i baffi di Freddie nel ’77, quando lui li portava in realtà negli anni Ottanta oppure la scoperta di quella maledetta malattia che se lo è portato via, collocata poco prima del Live Aid, quando in realtà si presume sia avvenuta dopo.

È un film, non un documentario: so che questa frase è stata scritta e ripetuta mille volte, ma è così, se vi pare. Così come è così – e naturale che sia così – la scoperta ex novo dei Queen, da parte di molti che fino a un mese fa ne conoscevano solo superficialmente l’esistenza. Non ci vedo nulla di male. Se il film è un veicolo per farli conoscere, ben venga. È tutta salute per le orecchie. Lo vogliamo definire una immensa operazione nostalgia? Anche se fosse, chissenefrega.

Concludo con un dettaglio tecnico, anzi un consiglio: se potete vedete Bohemian Rhapsody in inglese, perché il lavoro fatto dagli attori, soprattutto da Rami Malek è certosino. Freddie aveva una voce versatile dal vivo, a tratti potente, a tratti sottilissima, ma molto pacata nella vita reale, forse dovuta alla sua proverbiale timidezza, con una deliziosa s sibilante pronunciata in finale di parola. Ecco Rami ha colto queste sottigliezze in maniera magistrale, ve ne accorgerete già dal trailer.

Voto? Non serve, non è necessario. Godetevi il film, soprattutto la scena del Live Aid, un po’ il cuore di tutto, dove la forza dei Queen arriva come un pugno nello stomaco. Abbiamo iniziato parlando di emozioni, giusto? Ecco, appunto.

Di Paola Popa

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