Anatomia di un suicidio, con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni

Masiar Pasquali
Piccolo Teatro Cerca sulla mappa
DA Giovedì23Febbraio2023
A Domenica19Marzo2023

Dal 23 febbraio al 19 marzo 2023 va in scena in prima assoluta al Teatro Grassi di Milano (via Rovello 2) lo spettacolo Anatomia di un suicidio della drammaturga britannica Alice Birch, nuova produzione del Piccolo Teatro di Milano: un progetto firmato Lacasadargilla per la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni, con (in ordine alfabetico) Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Alice Palazzi, Federica Rosellini, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Francesco Villano, e con Anita Leon Franceschi.

Una madre, una figlia, una nipote. Tre generazioni simultaneamente in scena. Un'unica linea femminile legata alla vita, come per un incantesimo, dal più sottile dei fili, che si muove in acque scure e salate infestate dalle proiezioni, dai desideri e dall’amore degli altri e ritrova sé stessa in certi incontri improvvisi, nella bellezza di un frutteto, in tutto ciò che è acquatico e sommerso. In un caos in cui non si riesce a mettere ordine, le donne si parlano attraverso il tempo e le loro parole riecheggiano in una faglia aperta, nella casa di cui si ereditano e si tramandano intenzioni, auspici, domande.

Per la prima volta in scena in Italia, Anatomia di un suicidio, come uno spartito diviso in tre ambienti simultanei, rivela via via l’azione delle tre donne e le relazioni che le legano in un procedere per onde: quando una linea narrativa è attiva le altre due - visibili in parallelo - ne sono il contrappunto, il frutto o la matrice. Così la costruzione temporale che lega le protagoniste, il loro resistere o soccombere a una pulsione di morte che brilla nelle vite e in ogni incontro, si svela come un’oscura eredità familiare e storica tutta al femminile. Parole, azioni, oggetti e immagini si ripetono come ritornelli e segnali. E lo spettatore, in questa sincronia, eccitante e pericolosa, scopre affinità lontane nel tempo e nello spazio - in una danza mnemonica e somatica - tra relazioni e corpi, disaccordi e pulsioni.

Le linee narrative delle protagoniste - Carol 1972-1993; Anna 1999-2004; Bonnie 2033-2041 - seguono un doppio movimento temporale: diacronico, muovendosi lungo i tre assi temporali delle loro vite, ma anche simultaneo, dal momento che, in scena, le tre storie accadono in contemporanea, riverberandosi l’una nell’altra. Il racconto è sostenuto da un raffinatissimo ingranaggio ritmico e linguistico, grazie al quale, quando una linea narrativa è attiva le altre due, visibili in parallelo, ne sono il contrappunto, il frutto o la matrice.

Carol, Anna, Bonnie si parlano e si cercano attraverso il tempo, le loro parole riecheggiano in una grande casa, le cui mura, negli anni, custodiscono destini, tramandano intenzioni, auspici, domande. Le loro esistenze sono infestate dall’amore, dalle aspettative e dal dolore degli altri, mariti, compagne, familiari, amiche e amici, colleghi e quasi sconosciuti. Desideri e pulsioni si intrecciano agli incontri e ai tentativi di sopravvivenza, di resistenza alla vita che ognuna delle tre donne mette in atto. Più che protagoniste in senso classico, sono tre fuochi narrativi, come vere e proprie lenti di ingrandimento su questo grande affresco che è Anatomia di un suicidio. Un racconto corale che si muove tra le epoche e che mette in atto, allo stesso tempo, nella propria struttura linguistica un esperimento di psichica collettiva per attivare immaginari, tracce memoniche e rumori genetici che si diffondono per contagio nelle vite delle une e degli altri. È un testo e un dispositivo dove il vero protagonista è forse proprio quel groviglio che è la vita, dove tutti gli incontri, anche i più minuti, lavorano come talismani e attivatori, momenti di quel presente continuo che è la molteplicità delle voci di cui si fa la comunità che siamo, che ereditiamo e che lasceremo al futuro.

Carol si muove nel mondo come distratta dalla vita, c’è un qualcosa che la attira altrove e che ha il sapore liquido dei fiumi. È in bilico fra la vita e la morte. Prova con tutte le sue forze a essere una buona moglie, prova a lasciarsi amare dal marito John. Prova. Malgrado questo Carol ha una vitalità luminosa che trasmette alla figlia Anna. Semplicemente, ad un certo punto, il legame cede. Carol si tiene, si tiene aggrappata alla vita per amore.

Anna è nel mezzo, si muove tra la propria madre e la figlia. È un ripetitore, un ponte sensoriale tra ciò che viene prima e ciò che accadrà dopo. È la più contraddittoria, associativa, brillante e sensitiva, manipolatrice come solo le eroinomani sanno essere. In quel caos vitale Anna sembra attingere a una comprensione sotterranea e antica. Resiste, si disintossica, si sposa, ridipinge le pareti della casa di famiglia. Ma quel varco sotterraneo si riapre nel momento in cui è incinta: sente un sopra e un sotto, sente tutto, sente troppo. Il suo suicidio è come la fine dell’arco luminoso di una stella, una blue straggler, la vagabonda blu, che a un certo punto semplicemente esplode per eccesso di vita. Alla nascita di Bonnie.

Bonnie, a poco più di trent’anni, è medica esperta in un ospedale, intelligente, fin troppo percettiva, silenziosa. È l’ultima della stirpe. Non sa quasi nulla della madre e della nonna e prova a vivere una vita normale, prova a rompere un guscio di cui non sa la provenienza. Prova. A farsi amare, a lasciarsi invitare dai colleghi. Ma c’è quella casa che si tramandano di madre in figlia dove i ricordi si attivano quasi inconsapevolmente, c’è qualcosa che le parla dal passato. Ed è allora che Bonnie decide di togliersi la possibilità di generare per chiudere un tratto di storia familiare e fare, finalmente, legame con altro. Con la bellezza di un frutteto, con l’acqua di cui sembra circondata, con un coniglio di cui piange, libera, la morte. L’eredità per Bonnie, proprio come per Carol, sta negli spazi tra le cose, nella fine di qualcosa come possibilità d’altro.

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