Elio De Capitani e il Teatro dell'Elfo: «in Italia ci vorrebbe un New Deal culturale»

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Milano, 28/04/2020.

Elio De Capitani, direttore artistico, regista, attore e anima del Teatro dell'Elfo di Milano è un fiume nel raccontarci cosa significa fare teatro in un momento come questo, con una pandemia in corso, l'incertezza della riapertura, la necessità del distanziamento sociale in sala e sul palcoscenico, le difficoltà economiche in cui versa il comparto del mondo dello spettacolo e allo stesso tempo la necessità di fare teatro come funzione culturale e formativa. «Il teatro è qoelet, colui che chiama all'assemblea, ma se non puoi chiamare all'assemblea, la tua funziona è colpita al cuore». 

Il Teatro dell'Elfo, come spiega De Capitani, ha chiuso già da fine febbraio, «per tutelare la salute pubblica e il bene comune», con spettacoli che sono stati sospesi o, come Diplomazia, bloccati alla prova generale. «Attualmente con la sospensione dei festival estivi abbiamo messo sul tavolo un Piano B, ma anche un Piano C, con partenze sia soft, sia in grande stile per l'autunno o per dicembre».

Secondo De Capitani le norme per la sicurezza in platea sono più facilmente realizzabili, più complessa è la questione per chi lavora sul palcoscenico. «Nessuno pensa a chi sta in scena e alla prossemica. Non ho un solo spettacolo senza tanti attori, per l'Elfo è quasi un elemento costitutivo, di identità. Lavorare sul palcoscenico con un metro di distanza è un ossimoro. Certo, ci sono monologhi bellissimi, ma vanno bene per un breve periodo, altrimenti è la morte del teatro. Stavamo pensando a uno spettacolo come Moby Dick di Orson Welles, che in originale era addirittura una coreografia e che è molto fisico, ma in questo momento non sarebbe realizzabile. In molti dicono: sei un artista, ne uscirai con la fantasia, ma come regista mi sento inibito. Si possono avere tante idee, ma con la sensazione di rischio sono minate alla base. Ora bisogna adattarsi per superare questa fase, che deve essere una parentesi, per poter poi tornare a fare domani a fare teatro gomito a gomito».

Il Teatro dell'Elfo lo scorso anno ha registrato 160.000 spettatori, per il futuro ci si immagina che il pubblico sarà ridotto: «dovremo costruire rapporti con meno persone per volta, ma può essere l'inizio per convocare l'assemblea. Credo che il pubblico si dividerà in due, una parte di spettatori, lo zoccolo duro, che già si fa viva con noi e che ha voglia di teatro, non smetterà di venire in sala, una seconda parte, che è soprattutto quella dei giovani andrà riconquistata. Lo spettacolo Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte ha portato a teatro 25.000 spettatori, la metà dei quali era venuta a teatro per la prima volta. Perdere questo lavoro significa perdere 10 anni di quello che è stato fatto».

Perché fare teatro d'arte in Italia «è un lavoro in salita», dice De Capitani. «Rispetto ad altri paesi europei come Germania e Inghilterra, dove il teatro è un dato di fatto, qui manca un'educazione allo spettacolo dal vivo, così come all'arte e alla musica. È una questione anche storica, rispetto allo sviluppo del teatro nel nostro paese, che è stato prevalentemente lirico o dialettale almeno fino al secondo dopoguerra. Il teatro inoltre ha anche una funzione socialecoltiva la formazione permanente, perché le persone possano imparare ad avere un gusto estetico più complesso e una più ampia capacità analitica».

De Capitani sottolinea poi come: «il coronavirus abbia fatto emergere molti dei problemi del teatro che già esistevano» tra cui la mancanza di finanziamenti adeguati. «I più colpiti dalla crisi scatenata da questa situazione sono stati gli artisti, perché non tutti hanno potuto beneficiare degli ammortizzatori sociali. Bisogna portare avanti una battaglia comune per pensare al futuro unito delle imprese teatrali e delle persone. Dobbiamo sconfiggere l'idea che i teatri e le persone siano due cose diverse. Non si può contrapporre l'individuo attore a una compagnia e a un teatro. Per una ripresa dobbiamo difendere i lavoratori da un lato e dall'altro i teatri anche piccoli che non hanno il sostegno del Fus. Si devono sbloccare i fondi per far sopravvivere il sistema. La produzione di teatro in Italia soffre della totale mancanza di investimento».

Sebbene il Teatro dell'Elfo abbia messo a disposizione gratuita alcuni dei suoi spettacoli sul canale Vimeo, per quanto riguarda la possibilità proposta da Franceschini di una sorta di streaming teatrale, De Capitani espone le sue perplessità, in base sia a simili esperimenti esteri, sia su quelli effettuati in Italia per esempio con Rai5:  «Non c'è solo un problema di trasmissione, ma c'è anche tutta una questione legata alla drammaturgia e ai diritti d'autore. Spesso ci è capitato di dover rinunciare alle riprese perché gli autori non concedevano i diritti. In Gran Bretagna esiste National Theatre Live, che effettua riprese che riescono a mantenere la specificità del testo dal vivo, ma comunque lo spettacolo soffre del cambiamento di metodo e linguaggio. Poi la stessa trasmissione non era domestica, ma al cinema (tranne in questo momento in cui è at home) mantenendo il piano di una fruizione collettiva. Mettere lo spettacolo on demand e disponibile da casa contraddice la caratteristica dell'evento teatrale, che ha un linguaggio diverso rispetto al cinema o alle serie tv. Sicuramente questo ci porta a fare una riflessione multiforme sul teatro».

De Capitani conclude con un auspicio. «Più che di un Netflix del teatro ci vorrebbe un New Deal culturale su modello di quello avvenuto negli Stati Uniti dopo la grande depressione, quando ci fu una grande progetto di finanziamento per lo svuluppo di arti, teatro e poesia, contribuendo al fiorire di centinaia di compagnia. Artisti come Pollock, Rothko e Welles diventarono docenti. Grazie a quell'esperienza Welles portò in scena Macbeth ad Harlem con una compagnia afro americana, facendo arrivare per la prima volta nel quartiere la creme della società new yorkese. Questo gli valse la produzione di tre film a Hollywood, tra cui uno dei suoi lavori più celebri, Citizen Kane. Oggi pensiamo a una ripartenza, ma con un semplice presupposto, che non sia solo di monologhi».

Di Chiara Pieri

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