L'Art Nouveau a Palazzo Reale, mostra spensierata e irrequieta

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Milano, 09/12/2015.

I nostri occhi sono ormai assuefatti a priori dall’eterno inventare (e reinventare) del design che vediamo apparire quotidianamente sulle tazze da caffè, sui manichini, sulle poltrone e sui quotidiani. L’assuefazione di cui parliamo ha, in effetti, origini più antiche dei nostri stessi occhi annoiati, e in un certo senso ha influenzato, negli ultimi cento-e-fischia anni, il nostro modo imbarazzato e spesso confuso di chiederci: è arte, è design, o puro marketing?

Se volete condurre una rilassata indagine genealogica sul cuore di tale questione, dal 10 dicembre al 20 marzo 2016 a Palazzo Reale è allestita la mostra Alfons Mucha e le atmosfere Art Nouveau. Se il nome vi suona strano, possiamo assicurarvi che le opere vi risulteranno quanto di più familiare potreste mai associare all’arte e al disegno.

Nonostante il nome infatti non sia pronunciato in Italia con la frenesia di un Boccioni o un Klimt, il lavoro di Alfons Mucha è uno di quelli destinati alla più fortunata longevità nell’immaginario comune: capostipite dell’Art Nouveau (o stile Liberty per noi maccheronici), esplose nell’ultimo decennio dell’Ottocento grazie alla sua abilità di illustratore per manifesti teatrali, primi tra tutti quelli che compose per l’adorata attrice francese Sarah Bernhardt, beniamina del popolo francese nonché del Proust che la nascose dietro il personaggio di La Berma nella celebre Recherche.

Come sottolinea il direttore di Palazzo Reale Domenico Piraina, «la simbiosi artistica Bernhardt-Mucha fu solo l’inizio del successo: seguono infatti, con mirabile ingegno commerciale, le illustrazioni per marchi di alimentari e alcolici come la Nestlè o la Bière de la Muse, il design dei gioielli e dell’arredamento di lusso, la progettazione di vetri e finestre». Non è quindi un caso che, nel cuore di quella Belle Epoque un po’ spensierata e un po’ irrequieta, indiscussa officina della modernità, si iniziassero a creare quei presupposti per l’arte moderna che cola dai musei e si insinua nella banalità e nella realtà della vita comune: per quanto opposti nello stile e nella semantica, il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo e le donne di Mucha viaggiano sullo stesso binario pre-moderno diretti verso il Novecento.

I presupposti di questa mostra sono da individuare certamente in una ricerca retrospettiva sul senso del design (così come sulla possibilità di vivere in un regno di mezzo) ma anche sul piacere unico di poter portare a Milano un artista così fondamentale per tutta la cultura novecentesca. Il merito di questo evento va, oltre al gemellaggio di Palazzo Reale con Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, che da aprile a settembre 2016 porterà la mostra a Genova, all’organizzazione di Karel SRP e alla partecipazione calorosa di Lubos Rosenberg, in qualità di rappresentante della città di Praga.

Come spiega Stefania Cretella, la giovane co-curatrice della mostra, «lo spazio si divide in 10 aree che non seguono un filo cronologico bensì una logica tematica»: in primo luogo abbiamo un’introduzione all’arte decorativa in sè, in cui appaiono non solo, ad esempio, il grande Hommàge respectuex de Nestlè per la Regina Vittoria ma anche opere di artigianato liberty italiano come la sedia sinuosa e lussureggiante di Bugatti.

La seconda area tratta specificamente il rapporto tra Mucha e il teatro, quindi tra l’artista e la sua musa-attrice: oltre al celebre manifesto della Gismonda, appaiono simultaneamente le metamorfosi della Bernhardt nella crudele Medea, nell'androgino Lorenzaccio, o nella Signora delle Camelie.
La terza area si avventura invece nel mondo sincretico e magico della pubblicità: a guardare i numerosi manifesti di biscotti, champagne, birra e cartine per sigarette si ha davvero l’impressione che tali prodotti siano elevati a rango di oggetti mitici quali il Sacro Graal; siamo all’inizio di quel fenomeno che porterà magnificenza ai grandi marchi grazie al supporto di grandi narrazioni fantastiche.

La sala 4 si occupa di uno degli elementi fondamentali ed archetipici dell’Art Nouveau, ovvero la rappresentazione della donna: partendo da raffigurazioni classiche, essa si evolve e diventa nel Liberty un modello irrinunciabile di sensualità e magnetismo, un simbolo inscindibile dallo stile stesso. La sala 5, allo stesso tempo, esamina e analizza le differenze nella rappresentazione della donna Liberty: a volte femme-fatale, a volte donna angelicata, sempre e comunque protettrice del significato mistico di gioventù e bellezza.

Nella sesta sala si apre invece una veloce prospettiva sull’influenza artistica che il disegno giapponese ebbe sull’Art Nouveau: in primis, la predilezione assoluta per la linea serpentina e l’accostamento di colori sgargianti e luminosi, oltre alla bidimensionalità costante delle figure rappresentate. Le ultime quattro sale parlano rispettivamente del valore mitico degli animali, spesso accostati a figure femminile di cui completavano la caratterizzazione, portando al limite la sensazione onirica di queste opere; segue un’area dedicata alla preziosità dell’oggetto, che si concentra sull’ossessione fin de siecle per il dettaglio incantevole e lussuoso, vero protagonista di molte composizioni come tavoli e specchi.

Fanno infine da scenari teatrali, come a-priori kantiani dello sfarzo, la rappresentazione del tempo e della natura: il primo, cardine del senso di frivolezza e vanità che caratterizza lo stile liberty, la seconda, come più intima ispiratrice di un’arte che ha fatto creder di aver cancellato tutti i modelli per diventare, a suo modo, modello incontrastabile.

Di Lorenzo Barberis

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