Magazine, 01/02/2018.
Un’epopea spaziale con le intelligenze artificiali che reclamano dignità di vita. Una famiglia, mille casini ed un fantasma declinato da ciascun componente. Un ex giocatore di hockey, disilluso e incazzato con il mondo e una sola occasione per giocarsi tutto e nulla da perdere.
Bastano poche tavole di uno qualsiasi dei lavori realizzati da Jeff Lemire, tanto come autore di storia e disegni quanto come sceneggiatore, per restare colpiti dalla precisione balistica della sua penna, coinvolti della sua voglia di raccontare storie e infine convinti dalla sua capacità di farlo.
Jeff Lemire è bravo, è un fatto, e qualunque tipo di sua produzione si decida di affrontare, convince. Ritmo, scelta dei colori e tipo di tratto, definizione della struttura dei personaggi sono talmente curati da risultare tangibili a prescindere dal contesto; Lemire regala estremo realismo tanto che si tratti dell’inverno canadese quanto nel travagliato rapporto di una famiglia con il proprio fantasma, fino all’esplorazione di un universo nel quale umanità e robot sono alla disperata ricerca di un equilibrio, sospesi tra guerra e redenzione.
Quello che colpisce dell’autore canadese è che non si affida ad un genere specifico per raccontare storie; il suo talento è tutto nella sua capacità di individuare il vestito più adatto alle storie che ha voglia di raccontare.
La mia personalissima scoperta di Jeff Lemire arriva con la
voglia di soddisfare un bisogno di fantascienza. Affascina la
copertina realizzata da Dustin Nguyen; un bambino robot incantato
di fronte ad un cielo stellato mentre una luna enorme lo incorona
come fosse un’aureola ed un titolo di grande suggestione: Stella di
Latta. Bastano poche tavole, sempre illustrate da Dustin Nguyen,
per restare rapiti dall’odissea galattica di Tim-21. Tavole
dal grande respiro con confini accennati, colori soffici e Splash
page di grande impatto introducono il lettore in una
galassia dominata dal Consiglio Galattico Unito – impossibile non
pensare all’impero galattico di Asimov – introdotte da un incipit
di grande effetto nel quale i protagonisti sono i gesti quotidiani
– il traffico, una madre che porta in giro sul figlio, un telefono
che squilla – spazzati via dalla potenza di fuoco di robot grandi
quanto pianeti, i Mietitori, che decimano la razza umana e aprono
la caccia ad ogni forma di vita artificiale. In un mondo
nel quale i cacciatori di taglie hanno il compito di trovare e
smantellare i robot si riattiva Tim-21, creatura
artificiale assemblata dal Dottor Quon, ingegnere, genio
della robotica con armadi colmi di scheletri grandi quanto i
mietitori. L’autore canadese mostra una grande capacità di
creare gli spazi necessari affinché la storia si estenda,
creando il giusto ambiente per un racconto ricco e dal ritmo
serrato.
Un’alternanza di mondi degna di Star Wars, con personaggi che
prendono forma e sostanza mano a mano che la lettura dei – per ora
– quattro volumi va avanti in un susseguirsi di eventi, scelte e
colpi di scena.
Tante le sequenze a cui affezionarsi, su tutti l’incipit
del quarto volume: un susseguirsi di tavole nelle quali
passione e lotta si rincorrono in un climax che sembra senza fine.
Descender è un racconto che viaggia a velocità curvatura e che
quando si chiude con il quarto tomo, si inizia ad aspettare il
quinto
Se le capacità autoriali di Lemire emergono già in Descender, in
Royal City è bello ammirare come la scrittura si sposi al suo
tratto personale mostrandone il talento come autore completo. Si
passa dalle profondità siderali, con tavole dal grande respiro nel
quale trovano spazio gladiatori stellari e astronavi, alla
claustrofobica periferia americana. Nuove inquadrature e
una gestione della pagina differente, con l’occhio
dell’autore che va a poggiarsi su una famiglia scossa dall’infarto
del patriarca Peter. Tratto nervoso e colori lividi
regalano un racconto corale nel quale tutti i membri della
famiglia sono costretti a misurarsi con loro stessi, il loro senso
di colpa, i progetti traditi. Al centro il racconto della
solitudine di una famiglia in diaspora del
cuore.
Anche in questo caso a colpire sono le caratterizzazioni di un
racconto che parte dal lessico famigliare per focalizzarsi sui
singoli e nel quale psicoanalisi e soprannaturale si trovano a
condividere gli stessi spazi.
Un figlio, un fratello, scomparso prematuramente diventa
spirito guida per tutti i membri della famiglia che lo
hanno idealizzato trasformandolo – ciascuno a modo suo – nel
proprio interlocutore, un grillo parlante al quale affidarsi e
confidarsi; un compagno di bevute, un bambino di cui prendersi
cura, la propria musa, un prete persino. Tutto questo fa di
Royal City non solo il racconto di una periferia americana
disillusa e depressa ma è anche, soprattutto, una metafora
della periferia dell’animo, il luogo nel quale memoria e rimpianti
si incontrano per fare i conti con il presente. Se la struttura sta
sta in piedi come un grattacielo, è magistrale il modo in
cui Lemire presenta al lettore i protagonisti,
ciascuno perso nella propria disperata solitudine.
Inevitabile condividerne la sorte, le scelte, le sconfitte ma anche
la sottile speranza che tutto possa cambiare in quella moltitudine
di eventi che cinicamente chiamiamo vita.
Anche in questo caso, con contesto e sviluppo cittadino,
resta difficile staccarsi dalla lettura, impossibile non
restare invischiati in un racconto che tocca le corde
giuste e che se da un lato soddisfa per densità narrativa
solletica l’appetito quel tanto da voler fare propri anche i
prossimi capitoli.
Tratto e scrittura vengono sviluppate su un nuovo
livello in una storia chiusa, un one-shot, nel quale
l’esplorazione narrativa di Lemire lo conduce nel suo Canada.
Storia corposa e ambiziosa, ma che mantiene tutte le promesse che
fa mano a mano che si sviluppa. Lemire per tutta la lunghezza del
volume da l’impressione di aver ben chiara la rotta, che svela con
maestria mano a mano che il viaggio iniziato in un bar, si sviluppa
lungo le 270 tavole.
Il protagonista è Derek, un giocatore di hockey che ha
buttato nel cesso tutta la sua vita e che si ritrova a
consumarne quel che resta tra alcool scadente, il lavoro nella
tavola calda di famiglia e spiccata propensione alle risse. Di
impatto e dal grande potere allegorico la tavole nella quale, dopo
l’ennesima notte evaporata con l’alcool, Derek si
rispecchia nel centrocampo del campo da hockey dove vive per poi
abbandonarsi al sonno.
Il tratto nervoso di Lemire in questo caso è accompagnato dal
freddo di un azzurro diffuso nel quale gli colori caldi si
affacciano solamente, e mai per caso. Il calore è quello dei
ricordi, di una camicia sulla persona sbagliata, di un mondo
lastricato di sconfitte lasciato alle spalle senza che ci sia
rimpianto, ma solo livida consapevolezza. Il freddo
dell’inverno canadese diventa quasi un morbo capace esondare dalle
tavole. Dialoghi serrati ed immagini che non si limitano
ad accompagnare la narrazione ma ne fanno parte. Derek sembra un
eroe Milleriano, uno degli abitanti di Sin City, alla ricerca
disperata di una causa per cui morire. La sua giusta causa
gliela offre una sorella che cerca nel fratello guida e soprattutto
protezione. Entrambi iniziano un viaggio verso –
letteralmente – una nuova vita lungo il quale finalmente dovranno
fare i conti con il proprio passato, i traumi e le paure ed un
padre sbagliato che si specchia nelle scelte di vita o in un
compagno violento.
In questo contesto il Niente da perdere
del titolo non è ammissione di disperata sconfitta, ma ultima
occasione per giocare tutto in una mano, con la consapevolezza che
alla fine quello che resta da perdere è niente rispetto a quello
perso, ancora meno in rapporto alla posta in palio.
Tre racconti per tre storie che sanno colpire con forza, dai quali
emerge una voglia di essere narratore che prende forma diventando
storie da leggere. Lemire, in qualunque forma si decida di
incontrarlo, sa sorprendere e appassionare.
Volumi da soppesare, sfogliare e nei quali immergersi con
passione e curiosità, la stessa con cui, da lettore, ho
messo in wish list la sua personalissima declinazione
dell’universo dei super eroi affrontata in
Black Hammer – il cui secondo volume è
uscito da poco – e che sembra confermare come questo autore classe
1976 sappia utilizzare il media fumetto con la curiosità di un
esploratore e la capacità di un accademico.
Di Francesco Cascione