La disoccupazione, il caso Ilva e gli interventi politici

Magazine, 12/06/2017.

La disoccupazione, nonostante le ingannevoli dichiarazioni ufficiali, continua purtroppo ad aumentare e rende la situazione sempre più preoccupante ed esplosiva; di conseguenza molte forze politiche, specie di sinistra, cercano di contrastarne la crescita; affrontando però il problema principalmente a livello aziendale, mentre quando la crisi coinvolge la singola azienda i giochi sono già fatti e i margini di manovra sono molto ridotti.

L’attuale caso genovese dell’Ilva può servire da esempio: non serve una conoscenza specifica per capire che quando l’azienda, come in questo caso, opera in un mercato in concorrenza e la produzione programmata può essere realizzata con 4.000 unità in meno, se non riduce il personale si mette a rischio la competitività aziendale e il restante personale. L’elasticità è quindi limitata e può coinvolgere solo poche unità o gli ammortizzatori sociali a carico della collettività. Soluzioni che aiutano il caso concreto senza rappresentare una soluzione dal momento che non possiamo prevedere di scaricare sullo Stato gli oneri di tutti i problemi aperti.

Però come continuiamo a ripetere, la crescita della produttività, cioè maggiore numero di unità prodotte a parità d’occupazione, se non è coperta da un aumento di produzione, fa crescere automaticamente la disoccupazione. Non si tratta della singola produzione (ad esempio l’Ilva) ma del sistema nel suo insieme perché, se il Pil cresce, la maggiore disoccupazione di un settore può essere coperta da altri settori.

Le soluzioni quindi non sono a livello economico dello specifico caso aziendale, bensì a quello politico dell’intero sistema paese. È necessario infatti come abbiamo più volte ripetuto,  eliminare i tappi che impediscono la crescita, costituiti dalla mano pubblica, non più in grado di assolvere al proprio ruolo.

È in buona parte priva di fondamento anche la tesi corrente che attribuisce la disoccupazione alla delocalizzazione della produzione realizzata dall’imprenditore  per ridurre il costo della mano d’opera; una tesi che avrebbe potuto avere senso forse 40 anni fa quando la mano d’opera rappresentava il 50% del costo di produzione, non lo è più oggi essendosi tale percentuale ridotta intorno al 10 – 15%. Sono maggiori le diseconomie esterne del Sistema Paese che coinvolgono l’inefficienza della giustizia, dei trasporti, dei vincoli burocratici, delle autorizzazioni, dei cunei fiscali, ecc.

Basta a conferma il solo esempio della logistica, a me particolarmente familiare: infatti stando alle statistiche, la logistica, che incide per circa un 20% del costo di produzione, per più di metà è disfunzione prodotta dall’inadeguatezza delle infrastrutture pubbliche. Sarebbe sufficiente realizzare l’efficienza logistica per ottenere un risparmio pari quasi all’intero costo della mano d’opera.

Fino a quando i collegamenti fra Milano e la Cina si svolgeranno per i container via Rotterdam e per i passeggeri attraverso gli aeroporti di Monaco, Parigi, Londra, è possibile che, contro ogni logica economica, gli imprenditori siano costretti a delocalizzare per risparmiare anche sui costi logistici.

La nostra classe politica però, di fronte al disastro prodotto dalla sua incapacità, si illude di poter ritornare alla tranquillizzante teoria marxista del plus valore che scarica tutte le responsabilità sul padrone che ruba il salario all’operaio. La responsabilità principale invece  non è del soggetto economico, ma della classe politica; quindi sfogare la rabbia del lavoratore contro l’azienda e l’organizzazione economica è un’azione irresponsabile ed inutile, che compromette la parte che ancora regge paralizzandola ulteriormente e facendo precipitare la situazione generale.

Di Bruno Musso

Newsletter EventiResta aggiornato su tutti gli eventi della tua città, iscriviti gratis alla newsletter