Il gabbiano al Teatro della Corte: «Čechov è crudelissimo»

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Genova, 23/02/2017.

Un testo complesso. La paura del confronto. Una drammaturgia impietosa. Eppure lavorare a Il gabbiano afferma Marco Sciaccaluga è «paradossalmente puro divertimento». Accanto a lui Elisabetta Pozzi va addirittura oltre: «interpretare Arkadina è come godersi un barattolo di crema alle nocciole - a chi piace. Grande, però».

Non fa mistero Sciaccaluga di essersi sentito confortato nel compito, che definisce «folle fin dall'inizio, poi ambizioso, poi presuntuoso», da un bel gruppo di interpreti (in ordine alfabetico) Roberto Alinghieri, Alice Arcuri, Eva Cambiale, Giovanni Franzoni, Andrea Nicolini, Elisabetta Pozzi, Tommaso Ragno, Francesco Sferrazza Papa, Kabir Tavani, Mariangeles Torres, Federico Vanni. Tanto l'entusiasmo e la felicità delle condizioni di lavoro che quel certo languore, quella tensione da prova registica che di solito lo colgono a qualche punto delle prove, non sono mai arrivate tanto da chiedersi: «Come mai non ho ancora avuto una crisi di rigetto?». E, parlando a nome di tutti, in prima persona plurale, afferma: «E persino il debutto non ci trova particolarmente nervosi». Il sipario sulla nuova produzione si alza martedì 28 febbraio al Teatro della Corte - repliche fino al 19 marzo 2017.

Per Elisabetta Pozzi Čechov non è certo una novità, essendosi confrontata con ruoli della drammaturgia dell'autore, sia nell'89 nella versione de Il gabbiano di Walter Le Moli e nel '96 guidata da Peter Stein in Zio Vanja. «Con i suoi personaggi, Čechov ti richiede di trovare uno stato di necessità, sempre, ad ogni replica. Perché i personaggi sono spesso raccontati da altri, prima ancora di andare in scena. Poi, quando tocca a loro si comportano diversamente da come erano stati presentati. Quindi tu vieni anticipata da una descrizione e puoi certo portare in scena quella, ma anche qualcos'altro ti è permesso. C'è un movimento nel testo che ti permette di toccare aspetti del tuo ruolo a 360°. Marco (Sciaccaluga, ndr) ci ha dato le sue linee e noi dobbiamo seguirle, ma dobbiamo accenderci quando entriamo in scena con gli altri, se questo venisse ad appannarsi rovineremmo lo spettacolo. I tempi di Čechov sono vitali e molto sanguigni. Conosco benissimo Il gabbiano perché Peter Stein ci ha fatto studiare tutti i suoi racconti per quella produzione. E ricordo anche la tournée in Russia. Questi personaggi sono molto contemporanei come ci ha ripetuto sempre Stein».

Čechov secondo Sciaccaluga è una sfida e un paradosso «visto che ci dice quanto come esseri umani siamo stupidi, irrilevanti, aneddotici, mai all'altezza delle nostre emozioni, incapaci di dire quello che pensiamo». Impietoso e «crudelissimo, come diceva Gorkj. Capace di mostrarci nella nostra più abietta natura come sacchi di trippa, insisteva dopo una replica di Zio Vanja, infine osservando: Devi avere lo sguardo gelido del demonio. Ma come fai a farci avere pietà di noi?. Per questo, credo che quello di Čechov sia per me il più crudele tra le forme di teatro della crudeltà che conosca. Ogni giorno ribadisce che l'umano è inadeguato, ma anche che restiamo un piccolo miracolo».

Accanto alla nuova produzione nasce anche una nuova edizione italiana de Il gabbiano nella traduzione di Danilo Macrì che recupera la prima edizione del testo drammaturgico, quella, per intendersi, che Čechov consegnò al censore per l'approvazione ufficiale. Confrontando varie traduzioni, soprattutto inglesi e francesi, qualcuna tedesca, Macrì e Sciaccaluga sono incappati nella versione in francese di André Markowicz e Françoise Morvan da cui è nata la voglia di recuperare l'ur-testo e verificarne le varianti. «Il censore e Čechov - prosegue Sciaccaluga - si scambiano molte lettere, estremamente garbate, e per la maggior parte i tagli incidono su due questioni, una legata alle allusioni alla vita della madre di Kostja, Arkadina, e alla sua relazione promiscua con Trigorin. Un intervento dunque moraleggiante. E poi questioni politico-sociali: per esempio a un certo punto i mendicanti sono definiti ladri, un po' come spesso si tende a fare oggi giorno accusando a caso i migranti. Ecco, il censore fa notare a Čechov che la cosa è inopportuna». Se queste alterazioni sono però più scontate, altre sono diventate per la regia «molto più stuzzicanti», perché non riguardano né la morale tantomeno la politica, bensì il teatro e la dimensione semantico-simbolica del testo in scena.

Alcune ripetizioni, per esempio, diventano moduli con cui Čechov prepara alla morte del finale, creano un contesto di progressivo degrado e svalutano la portata di alcune parti. Oppure cambiano il carattere di alcuni personaggi attraverso meccanismi di anticipazione. Ma soprattutto, in alcuni casi, cambiano completamente il senso e il registro di alcune scene. E una in particolare, il famoso finale. Come? Con la presenza di un altro personaggio.

«La scena tra Nina e Kostja, sì, il famoso monologo - racconta con una certa concitazione Sciaccaluga -, la grande scena di addio alla vita di entrambi, quella dove Nina entra in scena che è già morta, una persona devastata, in soli due anni. Ecco, lì, nella prima versione del testo, c'è anche lo zio che dorme e che Kostja le dice stare molto male. Non solo: lo zio a un certo punto si sveglierà e guarderà Nina mentre lei tenterà per l'ennesima volta il suo monologo. La presenza dello zio cambia tutto. Una scena, per tradizione patetico-drammatica, diventa grottesca. Ci ricorda che all'epoca nella vita non c'era neanche un momento in cui si poteva essere veramente soli. Si parla di un mondo in cui si fa l'amore con qualcuno seduto lì accanto su una sedia. Čechov non scrive quasi mai monologhi, sono lacerti, piccoli momenti rubati, e personalmente ho sempre provato fastidio per questo monologo, invece con lo zio, la parte di Kostja diventa un discorso nuovo, come fosse un rendiconto verso una persona vecchia. La scena acquista una forza e una grande diversità».

Come scrive Danilo Macrì nella sua nota alla traduzione: «Abbiamo deciso di ripercorrere la soluzione adottata circa vent'anni fa da André Markowicz e Françoise Morvan in una memorabile traduzione francese. Questo è un debito che è doveroso riconoscere. Non ci sarebbe forse mai venuto in mente, a me e Marco Sciaccaluga, di indagare il peso di quelle varianti, se non ci fossimo trovata già pronta, per usare un'espressione un po' trita, la prova del budino. E non ci fossero subito sembrati evidenti i motivi per cui valeva davvero la pena di mettere in scena, almeno per una volta, il testo originario, come si presentava al censore in quegli anni lontani», ovvero tra il 1895 e il 1896 quando Il gabbiano debuttò a San Pietroburgo e fu un vero disastro, salvo poi essere ripreso due anni dopo dal Teatro d'arte di Mosca, per la regia di Konstantin Sergeevič Stanislavskij e Vladimir Nemirovič Dančenko, «che consegnò Il gabbiano alla storia e al canone del teatro contemporaneo».

Di Laura Santini

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