Il degrado contemporaneo a teatro: Ortoleva, Carrozzeria Orfeo, Paravidino

Luca Guadagnini

Genova, 21/11/2021.

Stiamo incalzato la potenza dell'immaginazione. Viviamo già oltre gli scenari e le trame di tante distopie e narrative speculative. La rabbia, la prepotenza, l'intolleranza, la diffidenza sono incontri quotidiani. La baronda di castighi che nelle nostre vite si susseguono - innondazioni, incendi, frane, pandemie -  è in verità quanto abbiamo seminato. Dove siamo finiti/e? A proposito di relazioni umane. Di comportamenti individuali. Com'è che continuiamo ad accettare profonde ingiustizie, violenze, abusi, prevaricazioni? E il povero pianeta? La sua inesorabile rovina? Quanto ancora siamo disposti/e a guardare al declino che ci travolge come meri testimoni. A che punto capiremo di essere responsabili del fenomeno? 

Tre diverse produzioni teatrali affrontano il degrado contemporaneo: quello sociale, ambientale, politico e culturale. Quello che è ormai trasversale a civiltà diverse. Lontani per linguaggio, ispirazione, e certo stile, La tragica storia del dottor Faust regia di Giovanni Ortoleva al Teatro della Tosse (3-14 novembre), Miracoli metropolitani di Carrozzeria Orfeo (@Modena 16-28 novembre) e Peachum. Un'opera da tre soldi scritto, diretto e intepretato da Fausto Paravidino (@Corte 17-21 novembre) al Teatro Nazionale di Genova calcano toni, gesti, colori e ritraggono l'orrore. In tutti e tre gli spettacoli si lavora sul tragi-comico e su spunti di cronaca. In tutti e tre si spinge a smuovere il riso. Si ridicolizza, si prende a prestito il grottesco, si lavora sul sarcasmo, su battute rapide e incalzanti. Le tre produzioni non potrebbero però essere più diverse.

L'anima al diavolo, suggerisce Ortoleva in La tragica storia del dottor Faust (produzione Fondazione Luzzati - Teatro della Tosse), l'abbiamo venduta da lungo tempo e andare alla scoperta del mondo e dei suoi piaceri come Faust con Mefistofele è una specie di ibrido tra rotocalco di notizie e sarcasmo spicciolo, un blob, che saltando da un argomento all'altro e attraversando continenti mostra come la corruzione regoli qualsiasi comportamento, azzerando i sentimenti portanti (ex valori) dell'umanità - è una forma di pandemia senza cura né vaccini ma altrettanto mortale. Nessuna traccia del senso morale o etico. Più semplicemente, sono persi il senso della misura, della decenza, della vergogna. Impera il piacere immediato ed è abolito il senso del desiderio, perché tutto va preso subito. Racchiuso in un teatro delle marionette il Faust en travesti di Federica Mazza è figura, tipicamente decadente: privilegiata, annoiata, tirannica e capricciosa. Nessuna scienza è più stimolo, occorre osare oltre. Edoardo Sorgente è un Mefistofele accondiscendente mai servile. Quando l'azione esce dalla cornice, dove Faust e la sua buona e cattiva coscienza occupavano tutto lo spazio drammaturgico, il resto del viaggio lo prende in carico Mefistofele - com'è da copione -  abbracciando tutt'altro linguaggio. Nei panni di un venditore di sogni in abito grigio (buono per vendere qualunque cosa) e indossando la disinvoltura di un conduttore televisivo, Mefistofele si sposta sul proscenio e si appropria del ruolo da protagonista: guida e tuttologo conduce l'annichilito Faust in un viaggio da globe-trotter, al cospetto delle nefandezze umane fin dentro il Vaticano. Reso muto e incapace di articolare alcun pensiero, Faust è sottoposto a spicce narrazioni, imbevute di cinismo disilluso. Un infantile, attonito stupore lo annienta. La tensione è tutta rivolta a stringere Faust nella morsa del suo patto mentre Mefistofele si fa carico anche della narrazione, toccando i momenti di perdimento di Faust che per un attimo fanno traballare il piano diabolico. Nello scarto tra teatro dei pupi e ritmo da avanspettacolo emerge una sensazione di inesaurito, di potenziale, di intentato che il linguaggio dei pupi aveva suggerito o aperto.

Cadenzato da una voce fuori scena che offre aggiornamenti dal mondo esterno, in Miracoli metropolitani (regia di Gabriele Di Luca, anche autore del testo, Massimiliano Setti, autore delle musiche, e Alessandro Tedeschi) il mondo è confinato a domicilio dallo stato ingestibile delle fogne. L'elemento claustrofico è una visione pre-Covid, conferma il drammaturgo Di Luca, maturata intorno a una notizia del 2017 da Londra: la scoperta di un "fatberg". Parola inglese di nuovo conio (introdotta nell'Oxford English Dictionary nel 2015) da "fat" grasso da intendersi come insieme di olii esausti da cucina e "iceberg", in realtà indica una formazione simil-rocciosa fatta di olii diventati sostanze saponose unitesi a calcare, altri depositi e rifiuti non biodegradabili. Le prime fatberg vengono rinvenute già nel 2008 nelle fogne del Regno Unito e hanno dimensioni spaventose (fino a 250 metri) e oltre agli olii contengono salviette, ritenute le principali responsabili insieme a chi le butta nei gabinetti di queste formazioni mostruose (Nathan T. Wright, un'illustratore canadese ne ha fatto un fumetto, The adventures of Fatberg). Mentre l'apocalisse delle fogne e dell'ingiustizia sociale e civile devasta il mondo esterno, in un interno infelice, una versione macerata di un fu "casa-e-bottega", una famiglia rilancia la propria esistenza legata alla ristorazione, sfornando cibi da asporto vegani e senza gluttine. Da un coacervo di individui costretti alla convivenza ma ispirati da esperienze, sogni e ideali profondamenti constrastanti, nascono e si susseguono vorticosamente episodi di vita. Come in un fumetto i personaggi sono caratteri dai tratti psico-somatici spinti nel grottesco. Si tende volentieri ad incursioni nel macabro e in tutto ciò che è politically incorrect, recuperando poi un po' di morale con qualche pillola di "verità" dalla battuta del personaggio che meglio racchiude (come stereotipo) il senso di ingiustizia del nostro tempo. Niente si censura, nessun comportamento si trattiene in questa giostra esilarante di conflittuali relazioni di mutua dipendenza. Assorbita la lezione dei serial, la drammaturgia e di conseguenza lo spettacolo lavorano per addizione e tutto è fornito in abbondanza: azione, sottotrame, intrighi, colpi di scena, quadri caricaturali che vanno dalla comicità a sketch al melodramma, fino a una serie di potenziali finali. Dal serio al faceto e viceversa è lecito ridere di tutte le cose serie, proprio di tutte.

La favola-macabra che emerge dalla riscrittura del classico di Brecht e Weil, Peachum. Un'opera da tre soldi (produzione Stabile di Bolzano, Teatro Nazionale di Torino) è un'intessitura a intarsio che permette al classico di far capolino a più riprese, senza riemergere davvero. Il Peachum di Rocco Pappaleo è un commerciante borghese che vende borse insieme alla moglie alle "sciure" (signore bene, in genovese) della via principale di una città senza nome in cui è prevista la visita del Papa. Peachum è anche colui che incentiva lo smercio di borse firmate per strada tramite una rete di migranti (forma di marketing spinto), intrappolati nell'abusivismo e assoggettati alla legge della strada da un gruppo di neonazisti mossi da nient'altro che il denaro, la noia, l'assenza di un obiettivo nella vita. I volti degli uni (migranti) e degli altri (neonazisti) sono resi indistinguibili da maschere che ne deformano i tratti, identificandoli come l'incarnazione stessa del male perché informe, indistinguibile, brutto. Punteggiato da stacchi musicali punk rock, il filo narrativo si avvolge progressivamente sempre più stretto intorno a Peachum e al suo senso della proprietà, esercitato verso cose e persone senza distinguo. I colori chiari e rassicuranti degli interni borghesi e dei costumi di coloro che li abitano - Pechuam, la moglie e la figlia Polly - contrastano con il rosso e il nero della strada, dei locali notturni e del mondo di Mackie (Fausto Paravidino) che cola sangue e violenza fin dall'inizio. L'amore tra Polly e Mackie è surreale, inverosimile e marcato dall'ingenuità insistita nel personaggio di Polly (Romina Colbasso la rende credibile). Il sindaco - licenza narrativa sul capo della polizia Jakie - amico d'infanzia di Mackie è donna (Iris Fusetti) e veste colori forti e tessuti lucidi che parlano di potere. Il male dove sta? Il simbolismo della scena e dei costumi conferma la dicotomia tra buoni e cattivi che la trama però tende a sgretolare. Brecht chiedeva al pubblico di emanciparsi dal meccanismo dell'immedesimazione proponendo loro la sfida dello straniamento, Paravidino non sembra percorrere questa strada fino al finale, con un coup de théâtre. 

Rimedi diversi a questo nostro malandato contemporaneo questi tre spettacoli godono di interpreti dedicati/e al loro mestiere e tesi/e a dare il meglio su quel palcoscenico che non si è potuto calcare per troppo tempo. Ci riescono. C'è un senso di malinconia e gioia in questi spettacoli che è tangente a testi, regie e drammaturgie. 

Di Laura Santini

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