Niente per cui applaudire alla fine del Magnificat di Antonio Moresco

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Genova, 23/12/2019.

Non applaudo alla fine dello spettacolo Magnificat basato sull'omonimo testo di Antonio Moresco, di cui è interprete e regista Alessandra Dell’Atti - in scena al Teatro della Tosse solo il 22 dicembre 2019. Non è certo la prima volta che non applaudo a teatro. Credo che sia l'unico gesto che ancora resta a chi siede in sala per rifiutare con rispetto il lavoro altrui.

L'autore è in sala, in prima fila. Lo spettacolo è dunque tanto di Dell'Atti quanto di Moresco.

Nelle note allo spettacolo si legge quanto Moresco ripete in sala a fine rappresentazione: «Ho scritto questo dramma teatrale all'indomani della morte di mia madre, come per rientrare dentro il suo ventre e rivivere il trauma della mia nascita nell'ora della sua morte». Magnificat fa parte di una raccolta di cinque testi teatrali pubblicati nel 2006 sotto il titolo Merda e luce (Effigie 2006). Non applaudo, ma resto ad ascoltare e confrontarmi con l'autore in sala perché di sicuro vorrei capire.

Non applaudo uno spettacolo e un testo che riducono il femmineo a un buco. La nascita a un'espulsione che devasta i genitali. Non leggo alcun mistero di buio e luce nella brutalizzazione che va in scena. Non applaudo perché non c'è sacro in un testo che procede con parole che riducono il femminile a mera "cavità" che si può solo penetrare in entrata o in uscita. Il sacro è mistero, è incomprensibile e incommensurabile all'umano nella migliore delle ipotesi.

Spaccare in due, aprire squarciando: il Magnificat chiude con una levatrice intenta a forzare in tutti i modi un parto che non si compie. Strappata la donna dalla sedia ostetrica che l'ha costretta a gambe divaricate per tutto lo spettacolo, la levatrice (così è chiamato in scena il personaggio) carica il corpo della donna su una portantina d'acciaio nuda. Lettino d'ospedale? Non esattamente. Del tutto priva di rivestimento, dunque inadatta a un corpo vivo, sembra piuttosto una barella su ruote da obitorio.  Nel forzare una nascita che non avviene, la levatrice si accanisce contro il corpo esanime di una donna pronunciata morta (forse questo giustifica la fredda e inospitale lastra su cui è deposta?), trasformando quello stesso corpo in niente più che un pezzo di carne da macello in cui gli arti vengono spinti in posizioni innaturali ed estreme di divaricazione, mentre la levatrice continua a spronare volgarmente la donna (ma non era morta?) a comprimerne il corpo aspirando appunto a un'espulsione - su un corpo morto o moribondo di solito si interviene con un cesareo d'urgenza, no?

La scena arriva alla sua conclusione a partire dalla battuta:  «Adesso basta. Ti spacco la fica». Presa un'accetta, la levatrice si accanisce ripetutamente contro le gambe divaricate del corpo femminile ora girate verso il fondo palco. Buio. Segue il vagito di un neonato. Buio.

La gratuità di questo gesto finale basterebbe forse a motivare il senso di profonda offesa che nasce da questo spettacolo, ma c'è di più e di peggio. C'è un testo appunto. C'è il testo scritto a monte e c'è il testo della drammaturgia scenica.

Non c'è sacro nel testo di Moresco. Solo sacrificio disumanizzante che parte dall'essere umano per puro spirito di annientamento. Nel dialogo tra madre e feto il ventre materno è «trippa», il feto che non vuole nascere è cosa che diventa «marcia», la nascita si riduce a un «mi infili», il liquido amniotico «una roba molle nera bagnata». La donna è cavità da penetrare, infilare, da cui essere espulsi: o soffre o gode. Una bidimensionalità che si sperava di non incontrare più e che invece continua ad esserci riproposta.

Sappiamo bene che maternità non è necessariamente l'equivalente di una passeggiata. Conosciamo il dolore, conosciamo il pericolo di morte. Conosciamo i casi di chi diventa madre contro la propria volontà ecc. ecc. Non si tratta di becero moralismo.

C'è in entrambi, testo scritto e scrittura scenica (azione e recitazione) l'uso di un linguaggio riduttivo, maschile e maschilista che non riconosce un ruolo attivo tantomeno una natura complessa alla figura della donna, ai suoi organi, ai suoi cicli. Lingua scritta e linguaggio teatrale risultano così offensivi, perché banalizzanti, gratuiti, ostentanti incapacità espressiva, e - mi vien da aggiungere - in merito alla violenza esplicita, terribilmente fuori tempo massimo.

La pornografia della violenza è già andata in scena più e più volte a teatro, al cinema, nelle serie Tv, nei videogiochi, in letteratura. Senza contare la cronaca sui quotidiani degli ultimi dieci anni. No, non è questo che offende (siamo talmente assueffati/e che sarebbe quasi un effetto positivo).

Offende la presunzione di creare simboli da libere associazioni. Quali simboli poi? La madre come madre terra? La madre come Luna? La madre come pianeta? Offende un'unica visione che esclude qualsiasi altro sguardo, non solo non prevedendolo, ma anche dandone un giudizio di valore, negando cioè che possa avere alcuno spazio, che sia anche solo legittimo. 

La voce fuori campo che narra a livello scientifico il mistero della materia e della creazione delle stelle e del cosmo corre tangente ma non si interseca affatto con quanto viene rappresentato: non sul piano visivo, non in chiave metaforica, non in chiave simbolica, non attraverso oggetti di scena o azioni. L'immagine è unica e univoca: una donna, la sua vagina, l'atto sessuale che la tormenta.

Le esplosioni che popolano l'universo facendo nascere e morire corpi di cui la fantascienza ci ha arricchito l'immaginazione più e più volte, oppure la poesia ha dipinto in tanti modi più o meno sublimi, sono qui antropomorfizzate e confezionate in un'unica idea. La realtà degli stupri di gruppo, degli abusi esercitati ad ogni latitudine è insistito riferimento inevitabile.

Emerge quella violazione che mira a lesionare le viscere di una creatura nel profondo, per annientarla e ridurla una volta di più a mero oggetto verso cui il maschile può e deve manifestare un'unica necessità quella di un possesso incondizionato: sessuale, psicologico, fisico. Un possesso che è crudele negazione dell'altro/a e atto di supremazia fine a se stesso, per un maschile incompiuto che si è fermato, nell'evoluzione dell'essere umano, agli istinti primordiali che non sa gestire, contenere, capire. Vuole solo essere appagato e ubbidito e vive esclusivamente di desideri primari. 

La terra? La biodiversità perduta o sopravvissuta? L'ambiente come ecosistema che dà e toglie la vita? Niente, solo un po' di terriccio che ricopre il palco e viene reso protagonista nel finale, del tutto flebilmente, scalciato in aria, in una performance di movenze nate dalla figura della levatrice - ma chi è poi questa levatrice? chiede legittimamente uno spettatore. «Un meccanismo che mi è servito per sbloccare un ciclo - afferma Moresco - ma altrimenti non so, non mi sono posto il problema». Peccato che tutto sia nella scrittura letteraria che in quella scenica si fa portatore di significato.

La dimensione letterale ha il sopravvento su qualsiasi dimensione simbolica in questa rappresentazione. Il femminile in scena è solo contenitore da riempire o da svuotare. La donna è ora madre di un feto che non vorrebbe nascere, che non vede quella luce che la madre gli indica. Il feto altro non è che l'esito di «una bella sborratina».

La donna è ora la madre terra che, «colpita da un bolide» (testuali parole del testo), nella trivellazione che permetterà di estrarre petrolio, gode gemendo esplicitamente in un crecendo che la porta all'orgasmo: «scende ancora di più nelle mie viscere... arriva fino alla sacca... continua ad affondare... sempre più forte... risale... tutta baganta... di quella merda nera». In un testo in cui, a detta di Moresco e Dell'Atti, si rifiuterebbe ogni forma di semplificazione, la donna/terra violata gode? Nella fase dell'abuso più insistito, la donna gode? Incomprensibile e non simbolico.

E se la donna va interpretata come madre terra allora come può il petrolio che è materia organica, stratificazione di creature vegetali e animali morte, che della terra è una parte integrante e profonda, perché dobbiamo sentirla definire «merda nera», senza contare che la semantica viene calcata qui dalla prosodia e il tono spinge ad aumentarne l'effetto deprecatorio, a svuotare di ogni valore quella materia profonda quasi a indicare ogni fluido profondo femminile come marcio (un po' come il liquido amniotico insomma).

E perché questa «merda nera» che esce mentre la madre-terra viene trivellata genera godimento? Se la donna/terra gode c'è del piacere? Se la penetrazione è orgasmo sessuale anche per la donna, allora forse non siamo più nell'ambito della violenza? Ma allora la trivellazione cos'è? Non era uno stupro ai danni del pianeta? E l'estrazione di petrolio come va intepretata? Come copulazione tra essere umano e pianeta che in qualche modo crea un fenomeno di piacere sulla madre-terra? Non stiamo scadendo su quella retorica per cui in fondo in fondo le donne che subiscono violenza se la sono cercata e poi forse forse hanno provato persino piacere? Credo che qui le contraddizioni vadano a finire in un pasticcio osceno più che in un intreccio.

A svanire non è solo la sacralità del femmineo e la complessità del suo misterioso organo, la vagina o vulva (che Moresco chiama «fica»); a svanire completamente, oscurata e resa inconoscibile/irriconoscibile da uno sguardo che appunto ne appiattisce le proporzioni, lo spessore, la vivacità è la natura stessa del genere femminile e di tutto quello che l'arte ha saputo elaborare in merito - trattegiando aspetti dolorosi, negativi, bellezza, tribolazioni, meraviglia, ecc.

Restano, aimé, restano tutti i cliché del condizionamento sociale e culturale ferocissimo che si è abbattutto sulle donne per secoli e che è ancora così insistentemente reiterato nella nostra cultura. Ogni giorno per una donna camminare per strada è una sfida.

La guerra, o sì c'è anche la guerra. Fatta di soli suoni banalmente espliciti (colpi, deflagrazioni, scoppi), lamenti e gemiti di dolore dell'inteprete e l'insistente voce del feto che chiede: «Cosa succede là fuori mamma? Ti 'mazzano?» E lei sotto un telo termico di sopravvivenza da cui emerge sanguinante risponde: «Ma no, stanno prendendo a bastonate un'anguria».

Questa battuta, forse l'unica felice e da salvare di questo testo, ha e poteva avere un ruolo chiave. Come commenta Moresco recuperando l'immagine che aveva pensato lui per la scena, in questo punto dovevano entrare due figure che avrebbero colpito delle angurie americane - quelle lunghe tipiche nel mantovano, zona di cui lui è originario - e che in questo gesto e nel suono che ne sarebbe emerso si sarebbe potuta manifestare tutta la tragicità necessaria di ciò che è sopraffazione, abuso, violenza e guerra, «perché l'anguria colpita canta in un modo molto tutto particolare ed esplode con la sua polpa rossa che sembra appunto sangue».

Teatro della Tosse - sala Agorà

22 dicembre 2019

Magnificat

autore del testo Antonio Moresco

interpretazione e regia Alessandra Dell’Atti (madre/feto/levatrice)

1 figurante (nel ruolo fisico della levatrice)

disegno luci Stefano Mazzanti

disegno sonoro Tiziano Scali/Guido Affini

musiche Magnificat di Claudio Monteverdi
costumi Daniela De Blasio

Contributo artistico alla ricerca Luca Andriolo – Tommaso Mobilia – Nivv k Pinelli 

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