Davide Livermore direttore del Teatro Nazionale di Genova. L'intervista

CineTeatro Baretti

Genova, 29/10/2019.

Lunedì 28 ottobre 2019, Davide Livermore è stato nominato direttore del Teatro Nazionale di Genova dal Consiglio d’Amministrazione.

Per questa bella occasione, in cui si riaccoglie ufficialmente tra le file della cultura italiana in un ruolo chiave, un talento molto apprezzato a livello internazionale, vi ripropongo un'intervista del 2016.

In quell'occasione in una lunga conversazione Davide Livermore mi aveva raccontato la sua attività artistica e di direttore tra Valencia (Spagna) e Torino. All'epoca era (da un anno) direttore artistico di uno dei più importanti teatri d'opera in Europa, il Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia (all'interno del quale era già direttore del Centre de Perfeccionament Plácido Domingo dal 2013).

Cantante, regista e direttore artistico, Livermore è noto a livello internazionale soprattutto per le sue regie liriche con cui si è guadagnato prestigiosi premi (tra cui Musical America 2011 e nel 2015 Premio Campoamor). Il suo teatro abbraccia le arti che fanno dello spettacolo un dialogo tra linguaggi espressivi in cui nessuno gioca mai un ruolo secondario. Sempre in quell'intervista, Livermore, che è torinese, raccontava di come dal 2002 fosse alla guida di un teatro di soli 112 posti il CineTeatro Baretti - per cui proprio nel 2016 curò la regia di L'assassino qualcosa lascia - in cui è anche interprete.

Di quell'interessante lunga conversazione del 2016, vi ripropongono solo alcuni passaggi chiave in cui abbiamo discusso proprio di cosa significhi dirigere un teatro e restare artisti o fedeli a valori culturali più che meramente politico-economici. Quasi un manifesto della poetica di Davide Livermore

Dall'intervista a Davide Livermore del 2016. Clicca qui per leggerla per intero.

Valencia-Torino, Torino-Valencia: cervello in fuga? Perché Livermore non è alla guida di un teatro italiano? «Ridicola l'idea della fuga di talenti dall'Italia, il fenomeno è ben diverso. La mia non è certo pruderieNon dirigo un teatro italiano perché nessuno me lo ha mai proposto. Perché quando mi è stato offerto, mi si è chiesto di mescolare la direzione artistica con la politica, di adeguarmi a una certa linea. Credo che però ci sia un errore di fondo, quando la politica fa cultura per me equivale e si conclude in pura propaganda e dunque non mi interessa e non mi riguarda come artista. Credo che la politica debba astenersi dal mettere le mani sulla cultura e lasciare spazio a chi ha visione».

A Valencia è alla guida di una mastodontica e affascinante creatura contenuta nell'architettura avveniristica di Santiago Calatrava. A Torino di un piccolo spazio dalla forte identità, soprattutto legato al territorio e al quartiere. Esperienze diversissime, quasi agli antipodi, quali vissuti? «Per un artista ci sono molti modi per gestire un teatro. Facciamo però una premessa: in Italia domina, per lo più, seppur ci sono delle eccezioni, un modello politico fatto di funzionari e direttori che vanno a braccetto con la politica. Io sono un artista e sono fuori da questi giochi. Per me avere la responsabilità di 280 dipendenti, di un'orchestra o di un gruppo di artisti è la stessa cosa e si riconduce a ragioni artistiche. La logica della politica è diversa e va in direzione opposta, porta al disfacimento, alla rovina delle istituzioni culturali pubbliche. Ci sono persone messe lì per portare l'ente alla rovina, attraverso varie forme di clientelismo. Per fortuna non dappertutto: Roma è un esempio virtuoso, sta vivendo una vera e propria renaissance. In generale, non ci sono piccoli teatri, come non ci sono piccoli ruoli in teatro, ci sono piccoli direttori artistici o piccoli interpreti. Sono di una specie diversa, sono un animale diverso, sono una bestia artistica. La mia sala a Valencia raggiunge il 90% dell'occupazione. Come? Attraverso politiche culturali e sul territorio a Valencia come a Torino. Al CineTeatro Baretti, in un anno, con tutte le varie attività compreso il cinema e i vari incontri, abbiamo raggiunto le 25.800 presenze in un anno».

Non si tratta quindi solo di confezionare prodotti artistici di qualità ma anche di innescare strategie di inclusione e partecipazione del pubblico per raggiungere un tale successo. Qual è la cosa di cui andate più fieri al Baretti? «Negli ultimi 15 anni il risultato più importante che abbiamo raggiunto è stata la nostra azione sociale. L'aver trasformato un quartiere come quello di San Salvario, dove c'erano spacciatori e ronde in camicia verde, in un luogo dove la gente va apposta. Abbiamo fatto laqualunque: prodotto film, coprodotto spettacoli teatrali, ospitato grandi registi e interpreti per esempio Caro George di Latella - il più grande regista italiano vivente - avviato un'iniziativa per festeggiare Mozart, 8 anni fa, che è diventata un appuntamento fisso una 36ore di concerti dove suonano gli allievi del conservatorio accanto a grandi nomi. Tutte azioni legate alla qualità artistico-culturale che ha cambiato per sempre la vivibilità di un quartiere. Vendiamo l'acqua del sindaco microfiltrata a 5 centesimi grazie al progetto di un gruppo di architetti Litrocubo che con una serie di fontanelle permettono di avere acqua gassata e naturale a Km zero con un risparmio per il pianeta e le persone assoluto in termini di bottiglie di plastica, inquinamento e sprechi vari legati alla distribuzione. E ognuno può vederlo da sé: c'è un monitor che ti dice quante bottiglie d'acqua sono state vendute. Per cui diventa un'azione concreta e condivisa, ma è anche un atto educativo che avvicina le persone, perché tutti hanno bisogno d'acqua».

Da questo vissuto la sana e necessaria morale della favola, per così dire, la visione livermoriana sull'idea e la funzione di ogni teatro pubblico: «un teatro pubblico è quello che ha una responsabilità sociale e che non fa del marketing come un qualsiasi ente privato. Un teatro pubblico deve far quadrare i conti, ma raggiunge questo obiettivo facendo azioni di straordinaria partecipazione sociale e di educazione. Vengo dal Bicentenario intorno alla prima del Barbiere di Siviglia a Roma (lo scorso febbraio 2016, ndr) dove il pubblico ha urlato di fronte alla mia decapitazione di vari dittarori della storia del mondo, scelti con cura per la nostra ouverture. Quando abbiamo insaponato e decapitato il duce è venuta giù l'ira di Dio. Sono molto contento di essere il sovrintendente di un teatro pubblico e di mettere a disposizione la bellezza che abbiamo, di raccontare alla società che questo patrimonio è loro. L'opera come intrattenimento per un'èlite non mi interessa. L'élite in una società la fa l'anima. Io sono torinese e le politiche culturali della mia città mi hanno portato con i jeans e mille lire in tasca al Regio, ai concerti della RAI e allo stadio. Tanti come me hanno visto la loro vita cambiare per queste grandi azioni culturali come queste».

Qual è il difetto del Baretti? «Una sala troppo piccola. D'altra parte è la dimostrazione che si può fare tantissimo con poco». Un altro difetto? «Non siamo capaci di giocarci la partita nei salotti torinesi. Non è una battuta. Un mediocre sa scalare bene gli scalini sociali, mentre per noi conta il lavoro. Questo però è un difetto perché bisogna conoscere il proprio campo di battaglia e dismettere una certa arroganza per raccontare di più di noi anche a chi crediamo, bassandoci su un preconcetto, non ci accoglierà/capirà. Bisogna sforzarsi di andare a incontrare le persone per quello che sono».

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