Diversità, lingue e linguaggi in Vader tra teatro-danza e teatro-circo

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Genova, 12/10/2019.

Dopo essere stata ospite di Torinodanza all'inizio di ottobre con l'intera Trilogia sulla famiglia, la compagnia  Peeping Tom di Bruxelles, nata nel 2000 dalla collaborazione tra i registi Gabriela Carrizo e Franck Chartier, è approdata per la prima volta a Genova con Vader  spettacolo inaugurale per il Teatro della Corte (8-9 ottobre 2019) e secondo titolo della stagione 2019-2020 del Teatro Nazionale di Genova.

Diretto da Franck Chartier, Vader (Father), è il primo capitolo del ciclo sulla famiglia presentato nel 2014 e portato in tournée in Europa e Giappone. Nel 2016 ha debuttato Moeder (Mother), per la regia di Gabriela Carrizo, mentre è di quest'anno il lavoro, Kind (Child) a chiusura del trittico. In scena in Vader  Leo De Beul (classe 1938) figura centrale della pièce e del gruppo, Marie GyselbrechtHun-Mok JungMaria Carolina VieiraSimon VersnelBrandon Lagaert e Yi-Chun Liu - il lavoro si è avvalso anche della collaborazione di un'altra figura caposaldo del gruppo la soprano Eurudike De Beul (figlia di Leo). A coadiuvare la performance 11 elementi nel ruolo di comparse, in questo caso genovesi (favolosamente integrate), che la compagnia cerca ogni volta sul posto e sottopone a una brevissima sessione di prova prima del debutto.

Qualche breve dialogo, una situazione appesa, personaggi solo vagamente delineati portano il pubblico dentro uno spazio evocativo tutto da costruire ma, da subito, immaginifico e contrapputato da illogici interventi e surreali azioni che importano il teatro-circo dentro una pièce quasi esclusivamente basata su azione, movimento e brevi coreografie. Costruire e smontare. Mettere in piedi e far crollare. Articolare e disarticolare. Agire logicamente e come in un numero da circo far saltare ogni legge o regola di senso. Questi gli ingredienti di questo spettacolo tout public.

In Vader si chiede al corpo di raccontare il movimento oltre ciò che storicamente abbiamo percepito e intendiamo come umano. Il movimento è un linguaggio che gli interpreti vestono come un costume espressivo intento a sfidare i limiti di equilibrio e articolazione che ognuno di noi conosce. I tipici appoggi saltano e i piedi, per esempio, vengono usati altrimenti: appoggiando sulla parte laterale interna, per ingaggiare in una disarticolazione acrobatica e reiterata. La danza folk fa capolino con sessioni sulle ginocchia, rapidissime e fluide, che ricordano però più il karate e il suo passo del  guerriero che un preciso ballo. Torso e gambe si (ri)organizzano per essere culla di un procedere a capriole gettando lo sguardo verso l'acrobatica, la capoeira, altre arti marziali.

In questo dinocolato e inventivo agire c'è allucinazione e fantasia ma, soprattutto, c'è accoglienza del diverso, dell'estraneo di ciò che tendiamo a mettere accanto e a non voler guardare. Assistere alla discesa nella vecchiaia del proprio padre o all'improvvisa follia che agisce repentinamente su un corpo, sia esso tormentato da una malattia mentale o da demenza, è una cosa che si può guardare e cercare di affiancare e condividere o si può semplicemente presenziare e minimizzare per non esserne intaccati nel profondo, per illudersi che si possa non cadere a nostra volta vittime della vecchiaia, della depressione, della schizofrenia, del bipolarismo, dell'autolesionismo o di qualunque altro stato che nella nostra società si liquida come malattia o non salute, qualunque sia la trasformazione - de-generazione -  del corpo e della mente. Un unicum, quello mente-corpo, che per troppo tempo abbiamo inteso separare e che è invece chiaramente l'essere nella sua complessità e dunque inscindibile.

Se il linguaggio non verbale del movimento ma anche dei suoni importa anche quello di alcuni animali, come il gatto o la gallina, portando a una trasformazione fisico-vocale che è reale travestimento, il linguaggio verbale  prevede oltre all'inglese, che domina nelle canzoni, anche il giapponese, il portoghese e il fiammingo. Questa Babele linguistica calca il concetto della diversità e individualità ma ogni lingua come ogni linguaggio non ha in sé un intento narrativo, seppure poi finisca per contribuire a un racconto. Si tratta di frammenti di quell'umano che ci pare intellegibile, o scarsamente tale, ma che per lo più sfugge anche a chi lo produce. A chi non è capitato di sentirsi dire parole che mai avrebbe pensato di pronunciare. La comunicazione, la testimonianza, il dialogo possono essere "gesti" altrettanto disarticolati proprio come i corpi che vanno in scena in questa pièce.

Una sala da ballo dismessa fa da contenitore e cornice, per delineare uno spazio che ben presto si configura come una casa per anziani in cui abita la senilità ma anche la stravaganza e l'incongruenza comportamentale di altri personaggi, a vario titolo internati o parte dello staff. La sensazione di segregazione, la minaccia continua di chi vive deprivato della propria identità, della propria libertà, costretto/a in ritmi precisi che guardano per lo più alle funzioni minime del corpo: mangiare, pulirsi, uscire all'aria aperta, ma non prevede alcuna attenzione verso la dimensione intima e emotiva delle persone. E allora quello che resta dello spirito che fa di ognuna/o di noi un essere unico, può solo alleggiare in scena tra micro-numeri da circo, come quello di Leo al piano, o quello del figlio in un reality show giapponese. Momenti felici, allucinatorie performance pubbliche, costruzioni oniriche, rapidi trapassi ricreano il tempo accelerato che viviamo e quella stringatura rispetto al ciclo della vita per cui la distanza tra l'essere figli/e e quindi padri (e madri?) si accorcia.

Siamo tutti/e gli uni e gli altri (le altre?). Forse manca a questo spettacolo un maggiore equilibrio verso un'indagine della relazione tra padri e figlie, per cui seppure ci siano alcuni rapidi quadri che lo prevedono è chiaro che lo sguardo che accoglie la relazione tra due figure maschili, è sguardo centrale e quindi preponderante. 

Poeticamente e artisticamente stimolante. Un vero regalo per il pubblico genovese.

Di Laura Santini

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