Ponte Morandi, un anno dopo. Il ricordo delle vittime prima di tutto. La riflessione

Michele Ferraris/Wikipedia

Genova, 13/08/2019.

14 agosto 2018 - 14 agosto 2019. Alcuni anniversari possono essere una festa. Questo che si celebra a un anno di distanza dal crollo del ponte Morandi, no. Anzi, dopo i tanti eventi degli ultimi dodici mesi, ci si augura che non sia l’occasione per qualche nuova forma di spettacolo o di propaganda. È, prima di tutto, il momento del ricordo per le persone che lasciarono sul ponte la vita.

Consegnando un dolore inestinguibile ai sopravvissuti e frantumando l’esistenza di una periferia usata come luogo di scarto e da decenni abbandonata a se stessa. È l’anniversario di quello che venne chiamato, il giorno stesso della tragedia, un viadotticidio, neologismo giornalistico poi registrato nelle parole nuove della Treccani del 2018 con il significato di «procurato crollo di un viadotto e, soprattutto, la conseguente tragedia delle vite umane perse».

Un aspetto, questo, che, al di là della scarsa fortuna della parola, non va dimenticato. Se invece si guarda all’oggi, il panorama della scena del crollo appare inevitabilmente contraddittorio. Un genovese tornato dopo tanti anni a Genova, rimarrebbe stranito camminando tra via Fillak e l’inizio della Val Polcevera. Da un lato, cumuli di detriti, nugoli di polvere nell’afa, quartieri in piena crisi economica e una viabilità che rende difficile ogni spostamento; dall’altro, cantieri in attività, gru al lavoro, tronconi delle ultime pile demoliti e, in alcuni abitanti, ancora la volontà di resistere.

Rovine e ricostruzione o, meglio, premesse per una ricostruzione s’incidono insieme nella medesima fotografia mentale del nostro viandante. Una operosa fase di transizione verso il nuovo la chiamerebbero i sempre entusiasti teorici del cambiamento. Ma questo nodo di elementi contrastanti riporterebbe forse alla memoria dell’esule genovese qui in rapido transito un’altra immagine. Quella di un tipo bizzarro e un poco inquietante che aveva visto spesso nella sua infanzia: sugli orologi delle piazze, in cima alle fontanelle, nei giardini pubblici e persino sulle panchine. Si tratta della figura di Giano bifronte, un’antica divinità del mondo romano eletta, nel Medioevo, a simbolo di Genova in relazione al suo antico nome di Ianua.

Ma perché mai tirar fuori dai propri ricordi questo relitto delle antiche civiltà italiche? Perché, con il suo duplice volto, a Giano veniva attribuita la proprietà di guardare insieme al passato e al futuro. Come fa oggi, con capacità infinitamente minori di quella di un dio e con vista velata dalla tristezza e strabica tra perplessità e ripresa, questa città posta sul crinale tra la tragedia passata e un futuro tutto da scrivere. In uno dei suoi simboli antichi, Genova ritrova così un’immagine del suo presente.

All’origine del nome Giano sta, però, una radice indoeuropea che significa passaggio, soglia e quindi movimento. E qui la realtà, ironicamente, tradisce l’etimologia. Genova, con le sue infrastrutture bloccate da decenni, economia e porto in stato di apnea e la sua immobilità sociale, che sacrifica soprattutto i più giovani, ha rinunciato, ripiegandosi nelle sue caste, alle proprie, non solo etimologiche, risorse. Bisognerebbe affidarsi oltre che a Mercurio, il dio degli affari, a quello della buona politica. A tener conto degli ultimi atti di chi governa la cosa pubblica, pare impossibile anche solo trovarlo. Ma forse proprio perché c’è poco da sperare, la speranza e, con essa, la lotta appaiono, a Genova e altrove, tanto più necessarie.

Di Enrico Testa

Argomenti trattati

Newsletter EventiResta aggiornato su tutti gli eventi a Genova e dintorni, iscriviti gratis alla newsletter