In nome del padre. Mario Perrotta canta errori e fragilità dei padri di oggi

L. Burroni
Teatro Eleonora Duse Cerca sulla mappa

Genova, 28/03/2019.

Cantare i padri. Non quelli di ieri, no. Quelli di oggi. Cantarli nelle loro fragilità, debolezze e nelle loro forze più o meno presunte.  L'intento è andare a indagare quella moderna necessità di contatto che dentro la famiglia sembra un dato di fatto e invece resta spesso imbrigliata in rancori pietrificati, incomprensioni remote, inguaribili delusioni, silenzi protratti troppo a lungo per cui le parole per dirsi le cose della vita sono evaporate. Mario Perrotta, nel nuovo spettacolo In nome del padre (al Duse fino a domenica 31 marzo), conferma una drammaturgia caparbiamente umana, agile intreccio di lingue del nostro paese che sono sia articolazioni verbali che gesto. Lavorando su pronuncia, accenti, lessico, sintassi e mimica, cesella profili umani e ambienti, vissuti e relazioni, senza cambi d’abito Perrotta sa vestire identità distinte con suadente naturalezza. Cedendo campo ai tre personaggi, il viso dell'interprete diventa sempre meno somigliante a Perrotta andando a incarnare a turno solo ed esclusivamente le "maschere" dei personaggi.

Cantare i padri è un mettere in guardia da quelle tante forme di inciampo che si incontrano improvvisandosi di giorno in giorno nel ruolo di genitori. Primo atto di una nuova trilogia, com'è ormai tipico del lavoro di Perrotta, seguiranno altre due produzioni una dedicata alle madri (al debutto al Teatro Piccolo di Milano nella prossima stagione), l'altra ai figli.

Nei tre ritratti animati di figure paterne, c’è chi domina cultura e conoscenza, chi è povero di parole e coraggio, chi è spavaldo e sguaiato nei comportamenti. Tipizzati linguisticamente, sono l'erudito giornalista siciliano, il laconico operaio d'officina padovano e l'imprenditore napoletano con il pelo sullo stomaco e la modernità sfoggiata attraverso storpiature di anglicismi. Ognuno travalica quella soglia impercettibile che esiste tra genitori e figli/e e che una volta superata porta a madornali errori, sguaiataggini di ogni genere e produce ferite più o meno profonde nelle identità in formazione di figlie e figli. Collocate nello stesso condominio queste figure si osservano a vicenda, si giudicano, in parte si invidiano, come persone e padri, ma nessuno ha davvero la soluzione alla sfida che pone la genitorialità. Nessuno è dotato di strumenti più adatti, meno fallaci a risolvere il confronto tra chi è adulto e chi è in crescita.

Come già in Un bès Antonio Ligabue e nel Milite Ignoto. Quindici Diciotto, costruito come un monologo a più voci in cui intervengono anche figli e madri, lo spettacolo poggia su pochissimi elementi di scena: tre installazioni in ferro, stilizzazioni di figure umane e tre giacche di diverso colore. Sarà la musica a intervenire come ulteriore elemento di scena, sia come rumore che come melodia e canzone, penetrando nella drammaturgia per raccontare tre modi diversi di interpretare la dimensione musicale: come linguaggio altro capace di funzionare da significativo chiavistello attraverso cui riaprire la comunicazione con i propri figli adolescenti. 

Confessarsi cantando una vecchia canzone oppure facendo scorrere dita arrugginite sulle corde di una chitarra elettrica messa da parte troppo in fretta, la musica è carezza senza contatto (parafrasando una battuta del testo), è quella frontiera in cui la comunicazione avviene per prossimità, per vibrazione, per un comun sentire che aggancia le rispettive individualità e le tiene strette in un abbraccio che non ha bisogno di chiarimenti. Musica però può anche essere un terreno scivoloso su cui è facile perdere la presa e farsi trascinare dentro il sogno dell'eterna giovinezza, dell'essere amici e compagni di svago di figli e figlie per intruforlarsi nel loro mondo ed evadere dal proprio.

Ciò che rende Mario Perrotta un interprete trascinante è la sua generosità: quella che sa esprimere verso i suoi personaggi, lasciando ad ognuno il tempo e il modo di parlare, incluse quelle smorfie e atteggiamenti del viso, delle mani e del corpo che ognuno definisce nel tempo e rende parti manifeste del proprio modo di essere, più eloquenti di mille parole. 
Questo canto ai padri, è dedicato in particolare a quelli che sbagliano. Questo non porta ad alcun moralismo bensì a gettare uno sguardo pietoso su delle tipologie che campionano passi falsi, equivoci, scorrettezze e imperdonabili sbagli senza scadere nello stereotipo ma toccando i temi del presente rispetto al tema degli adolescenti tra isolamento, omosessualità, ansia da prestazione, bellezza femminile e abusi. Anche in questo caso, c’è una forma di generosità o senso della prospettiva che Perrotta adotta ricordando a padri, madri, figli e figlie che nessuno è esente da errore nel costruire le relazioni familiari. 

27 - 31 marzo 2019 @ Teatro Duse

In nome del padre
uno spettacolo di e con Mario Perrotta
consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati
collaborazione alla regia Paola Roscioli | aiuto regia Donatella Allegro
costumi Sabrina Beretta
musiche Beppe Bonomo, Mario Perrotta
produzione Teatro Stabile di Bolzano

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