Davide Enia al Modena con L'abisso tratto dal romanzo vincitore del Mondello

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Genova, 04/12/2018.

Come si coniuga la storia individuale e l’epica? Chiedo a Davide Enia, scrittore, drammaturgo, narratore e attore che dal 5 all'8 dicembre 2018 porta a Genova al Teatro Modena il suo nuovo spettacolo L'abisso, adattamento dal romanzo Appunti per un naufragio (SuperMondello e Mondello Giovani 2018). Cerco di formulare meglio la domanda: voglio dire, la storia individuale è necessaria lente di ingrandimento quando carica di un certo pathos emotivo? Oppure semplicemente accade accanto alla Storia con la S maiuscola e dunque è di per sé imprescindibile? 

«Mi piacerebbe avere una risposta chiara e precisa. La verità è che non ce l'ho» afferma Enia per poi proseguire come chi le parole le maneggia professionalmente e vuole sempre che taglino l'argomento in modo netto. «Questa è l'unica chiave che ho trovato per la smisuratezza degli eventi davanti a cui mi sono trovato in tanti viaggi a Lampedusa. Le parole falliscono non ce la fanno a processare l'enormità di quanto avviene. Mentre gli accadimenti della mia vita personale riesco a calibrarli, quindi riesco a dominare la storia con la S maiuscola attraverso di essi».

Da Siciliano quale relazione con Lampedusa? «Per me Lampedusa è estensione di casa. È Sicilia. Questo è uno dei motivi per cui continuavo a tornarci. Anche se è un'isola minore sia dal punto di vista culturale che culinario è comunque Sicilia, è casa. Una condizione che gli isolani hanno molto chiara». La portata degli sbarchi, la paura di essere un corpo in balie delle acque, l'angoscia per la propria vita e quella dei propri cari, di nuovo da isolano come si interpreta? «L'ultima cosa da fare in mare è essere spaventato. In mare bisogna sempre mantenere la calma. Risparmiare le energie, rinegoziare quei trenta centimetri che ti separano dall'approdo. Devi sempre metterti nell'unica condizione possibile: ascoltare il mare, le correnti, te stesso. Il mare è un parente a cui vogliamo un bene smisurato, il mare è patre, prende e dà».

Il titolo del romanzo Appunti per un naufragio (Sellerio 2017) ha qualcosa di paradossale o forse nichilista: presenta quello che normalmente è un evento imprevedibile come qualcosa che si può pianificare e preparare a tavolino, mi sbaglio? «Così non l'ho mai visto. Il mio ragionamento è stato un altro. Dichiaro il fallimento di scrivere un romanzo, perché il primo sbarco mi ha messo di fronte alla Storia ed è mancato il filtro del tempo perché la parola potesse nominarla con giustezza, per questo appunti. Il concetto di naufragio è ambivalente come tanti altri. Nel naufragio puoi perdere tutto perché rischi la vita, ma è anche l'unica condizione che ti può dare un approdo che è quasi sempre in un luogo nuovo e sconosciuto. Provare a scrivere un romanzo è un naufragio e la compilazione di appunti è un approdo. Quello dei corpi raccolti in mare. O quello del tumore di mio zio che muore di tumore. Due momenti che si allacciano nel romanzo e nello spettacolo per un contraltare emotivo sulla storia e la morte». 

A proposito di morte, nel 2015 a Pieve Ligure prima di leggere il Canto XI dell'Odissea per la rassegna Racconto Mediterraneo di Teatro Pubblico Ligure, nell'introduzione ricordavi il carattere mobile di Odisseo che lo porta a compiere o non compiere azioni, lo descrivi come uno che esita, mente, racconta e che in questo canto scende agli inferi. Ecco, dicevi: "ogni volta che ci sono i morti, si tratta di compiere un viaggio per la conoscenza e nella conoscenza". Perché la morte è conoscenza?  «Perché svela. Perché segna in maniera netta l'incontro con l'altro - che può essere anche un nostro io-altro - e con l'oltre, qualcosa di imponderabile, impensabile, incommensurabile. Che sfugge alle definizioni. Ti obbliga a rinegoziare i giudizi, il punto di vista. È uno dei pochissimi definitivi che abbiamo nella vita. Accettarla o rifiutarla dipende dall'impostazione culturale e religiosa. Negli ultimi secoli siamo cresciuti nella cultura della morte che spaventa e quindi continuiamo ad esserne soggiogati». Il che ci porta a una condizione di facile manipolazione? «Sì perché una parola chiave dell'essere assoggettati è paura, l'altra è odio».

Che cosa resta nel romanzo che non è potuto salire, per così dire, sulla scena? «Ribalterò la tua domanda. Ho scritto lo spettacolo perché non ho esaurito la creazione di distanza tra i fatti che mi hanno trapassato nell'esperienza. Quindi rielaboro fatti che non sono nel romanzo. Il romanzo poi riflette e interviene sulla parola scritta, il teatro ha la possibilità della parola che si fa carne, e quindi scrive i singulti, il trovarsi sull'abisso e non avere parole per esprimere stupore. Sono i due linguaggi che pratico da sempre». In che modo dunque questo lavoro è diverso?  «Il carattere attoriale è molto performativo mi rimetto nella condizione di rivivere l'esperienza come fossi lì davanti ai fatti». Come nel trauma? «Esatto e della sua rielaborazione, come a costruire la cicatrice e per farlo si cerca di nominare l'abisso. Trauma è la parola esatta».

La lingua siciliana è uno strumento che in scena si inserisce come necessario in tanti spettacoli, come se l’italiano non fosse abbastanza neanche per le parole più semplici? Che cosa comporta questa lingua che l'italiano standard, lingua costruita a tavolino, per te non ha? «Il parlemitano ha una stratificazione simbolica che l'italiano costruito con la televisione nel dopoguerra non può neanche sognarsi. E poi io penso in palermitano. Io incontro le persone a Lampedusa, i pescatori, il personale medico, gli equipaggi della guardia costiera, con tutti parlo in dialetto, secondo un urgenza di espressione che è quella e non un'altra. La miglior parola è quella non detta si dice in palermitano: lo sguardo diventa narrativo, il silenzio diventa narrativo ed è l'unico linguaggio che ho trovato per avere una nominazione il più aderente possibile alla verità emotiva e linguistica da rappresentare».

Senz'altro anche il romanzo è ricco di elementi sonori, ma la musica sul palco come si interseca con la narrazione? «La partitura musicale in teatro l'abbiamo costruita in modo molto chiaro, perché sapevo che avremmo avuto strumenti elettrici, soprattutto la chitarra per creare effetti distorti e disturbati. C'è sempre qualcosa che dissona in questa storia. Quando le parole non riescono a dire c'è la musica, tanto che ha una funzione fortemente narrativa. Quello di Giulio (Giulio Barocchieri, ndr) è un lavoro molto centrato sulla dinamica della costruzione del trauma. Non è un caso che ha seguito tutte le prove e le musiche sono state costruite mentre il testo si modificava e vicendevolmente sono mutate nella relazione, fino a diventare un unico percorso narrativo».

La nave Mare Jonio, salpata da Augusta lo scorso ottobre, per la missione Mediterranea, capitanata dall'armatore Alessandro Metz, batte bandiera italiana e promuove «un’azione non governativa, di disobbedienza morale e obbedienza civile» per monitorare, testimoniare e denunciare la drammatica situazione nel Mediterraneo, c'è chi ha criticato questo progetto per le condizioni precarie dell'imbarcazione, cosa ne pensi? «Lo dico puro e semplice: penso tutto il meglio delle persone e delle ONG che operano in mare e tutto il peggio di chi le sta boiccotando. Uno degli universali su cui si costruisce la società millenaria a cui appartemiamo è che in mare si salvano le vite, di tutto il resto non me ne fotte un c.... Tutti gli operatori, medici, guardia costiera, militari, pescatori hanno un coro univoco: in mare si salvano le vite. Strano paese - e disperato - quello in cui a fare le leggi sono quelli che in mare non ci sono mai stati».

Con il romanzo Appunti per un naufragio  hai vinto tutto il SuperMondello e il Mondello Giovani 2018, (30 novembre 2018) nella 44a edizione del Premio Letterario Internazionale Mondello. Che importanza ha per te questo risultato su un lavoro tanto intimo quanto universale? «Sono contento di avere avuto tutti questi voti in queste categorie: una conferma transgenerazionale. Ma soprattutto mi ha colpito come nelle due votazioni ci sia un perfetto equilibrio62 su 120 componenti della Giuria dei Lettori Qualificati e 96 preferenze su 180 studenti siciliani di 18 scuole secondarie di secondo grado. Però una cosa che ho appreso è questa: più si è distanti dai fatti dei luoghi in cui certi eventi sono accaduti, più una persona è convinta di avere un'idea immutabile, quindi tanto più narrare i fatti cambia il modo di agire e di pensare. E devo dire che in questo momento c'è un movimento trasversale che di fronte all'abominio del decreto sicurezza sta cominciando a dire ci stiamo rompendo i c....... Perché questo decreto sbatte in strada una donna incinta con un neonato di sei mesi e questa non è una cosa astratta. La gente non l'accetta. Ho scoperto dunque la necessità e il valore di mostrare certi avvenimenti, in un momento in cui egoismo e manipolazioni altrimenti ti fanno girare dall'altra parte».

Di Laura Santini

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