In 'Giovanna detta anche primavera' un teatro epico e poetico insieme

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Genova, 27/10/2017.

500 g di Shakespeare (drammi e sonetti).
150g di Brecht miscelati con 30g circa di Kurt Weil.
20 g di canto lirico.
400g di composizione musicale.
100 g di dialetti italiani opportunamente selezionati dallo speziale (sardo e napoletano).
una spruzzata di italo-americano e di inglese.
un pizzico di De Summa, Nekrosius, il primo Celestini (annata Ceccafumo).

Di certo questi ingredienti rimandano a una versione imprecisa di Giovanna detta anche primavera - ancora stasera soltanto, 27 ottobre, ore 20.30, al Teatro della Tosse. Uno spettacolo scritto da Valentino Mannias  che ne è anche accattivante interprete insieme a Luca Spanu e Giaime Mannias: attori, musicisti e cantanti capaci di repentine quanto felici metamorfosi. Per sua natura ibrido e composito questo lavoro non può essere ridotto a una lista di ingredienti o una ricetta di cucina - fin troppo omogenea per quanto varia. Quell'originale che emerge insistente resta nell'idea che si costruisca a partire da una materia-prima disomogenea che non è possibile intrecciare né mescolare, ma che si può solo giustapporre lavorando sullo scarto piuttosto che su associazioni o affinità.

Nel buio della sala una voce registrata di donna anziana racconta in una lingua quasi del tutto incomprensibile (dialetto stretto) qualcosa a qualcuno. Sul palco, en travesti un attore piano piano emerge dall'ombra con un monologo che è e non è quella storia, ci porta alla giovinezza di quella donna, ma forse anche di altre nella stagione della fioritura. Intanto canto e chitarra si intersecano e senza che alcun elemento voglia primeggiare tra gli altri, gli aspetti materici messi in convivenza orchestrata amplificano la dimensione dei sensi. La parola non dice (perché esce troppo in fretta o in un dialetto troppo stretto). La musica non accompagna né celebra. Il canto non evoca né intona. Tutto si accorpa imprecisamente per costruire una forma di storia, un quadro narrante in un'agire mai descrittivo.

Un'operare per montaggio mai perfettamente allineato, ben diverso da quel che si intende tradizionalmente a teatro o al cinema, perché qui teso soprattutto a ridefinire la relazione tra segno e significato. Tra cosa una voce che dice sul palcoscenico può creare in termini di senso al di là delle singole parole, o l'espressione sul volto di un personaggio può comunicare mentre, muta, osserva l'agire invadente di un altro personaggio. Sono le due caratterizzazioni, insieme, a creare una forma di storia, l'una e l'altra distinte racconterebbero anche altro. Si va al di là di un semplice salto di registro o tono. Si va all'incastro che regge per miracolo eppure nella sua occasionalità è perfetto.

Ecco questa produzione di Sardegna Teatro che giustappone materiali estranei tra loro, stando sempre in bilico su una pluralità di canali, strumenti espressivi e direzioni del senso, riesce a rendere ciò che all'apparenza risulta posticcio, sporco, non chiaro, non lineare, certamente polisemico e sinestetico. Riesce a riflettere su cosa sia una storia e cosa significhi raccontarla. Offre una creazione e il suo processo e tra i due lancia squarci di senso e propone esperienza.

Una storia è il tesoro identitario di una persona, gli eventi sono sempre gli stessi ma il modo in cui ognuno racconta è unico, lascia traccia di un sé (e di chi ascolta). Riportare una storia può ridurla a un niente, all'ennesimo borbottìo cantilenante di un altro essere umano. Trasporla in altre semantiche e mezzi di comunicazione, le restituisce carattere, spessore, epicità e poeticità. Chi formula, mentre "formula", confeziona significato/i e sta già anche indicando la regola con cui interpretare l'arbitrarietà nuova: un foglio non è una poesia d'amore soltanto, né soltanto una lettera; il disegno sul foglio non è una serie di linee che compongono una figura ma il progetto imposto da qualcuno, lo Stato, sul qualcun altro, il soldato. Allora il foglio è la chiamata alle armi. Nelle mani di Giovanna però quello stesso foglio resta la lettera d'amore e una promessa per la vita. Chi assiste è chiamato a de-codificare, ricomporre, ma al contempo sente che quello che va in scena è in grado di generare epifania e un simpatetico sentire. 

Quando negli spigoli, nei brandelli, nell'escrescenze trova spazio quella necessità di raccontare imperfettamente umana, che fluisce da una storia all'altra, da un'immagine all'altra, allora il senso precipita nella percezione e quindi va rac-colto.  Una serie di immagini familiari - la giovinezza di una donna, il primo amore, le promesse, la guerra, l'essere soldato, il matrimonio - vengono trasposte in episodi incoerenti ma che si rincorrono e incastrano. Lì un sentire più intimo emerge, proprio dall'inquieta relazione tra cantare parole o dire parole, tra suonare una battaglia o raccontarla con una sola luce rossa sul viso del soldato morto. Simbologie teatrali certo, ma all'interno di un esprimersi non canonico che trova una sua corporalità ibridata da strumenti musicali, voci sul palco e fuori scena, duetti e vocalizzi, dialetti e parlate regionali, italo-americano e inglese, ma anche movimento sonoro di corpi e di oggetti, gestualità rituali che si consumano in penombra sul palco, fuori dal palco, in platea; dentro un disegno luci che scrive altre corpuscolarità e tiene tutto come in una cornice. Un'iconografia tutta nuova si impianta su quella ben nota in una 'trasmissione' iper-mediata che sfoggia le forme utilizzate tutte en travesti e chiede una contestuale operazione di apprendimento del nuovo codice. 

Nella sua novella Figure in the carpet lo scrittore americano Henry James fissava uno dei simboli più forti legati alla narrazione: raccontare equivale a tessere fili in una trama, ma quale e quanto significato sia possibile decifrare non è un dato certo e uguale per ogni lettore. C'è chi nella figura che emerge dalla tessitura leggerà molto di più, altro o meno. E questa è storia antica che conosciamo bene. Oggi però sembra che i linguaggio, da quello fatto di lettere dell'alfabeto a quello di note musicali o di cambi luci, sia progressivamente sempre più inadatto e limitato, perché stereotipato e commercializzato al punto da essere equiparabile a prodotto in svendita, sempre meno espressivo. Lasciata la pratica della tessitura dunque, lasciata l'idea di un unico filo che genererà un tessuto omogeneo, ci di rivolge a una pratica che somiglia all'idea dell'incastrare - non proprio ma in parte vicino al collage degli anni '60 - in cui l'aspetto materico, gli strumenti e le tecniche delle arti classiche vengono portate l'una verso l'altra in un vicendevole rimodellarsi che porta a rinnovare antichi simboli e a costruire nuove iconografie su immagini note.

Da non perdere.

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@ Teatro della Tosse
dal 25 al 27 ottobre - ore 20.30 

Giovanna detta anche Primavera

di Valentino Mannias
con Valentino Mannias, Luca Spanu, Giaime Mannias
musica Giaime Mannias, Luca Spanu
luci Matteo Zanda
audio Giorgia Mascia
regia Valentino Mannias
produzione Sardegna Teatro con il sostegno della Rete #giovanidee

Di Laura Santini

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