I manezzi pe majâ na figgia, il Govi di Jurji Ferrini alla Corte

P. Caroli (www.teatrostabilegenova.it)
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Genova, 29/12/2016.

Sarà la nostalgia per una comicità d’antan, sarà la voglia di vedere ancora una volta dal vivo quei caratteri entrati nell’immaginario e sarà, magari, anche la voglia di godersi le tonalità e la mimica del dialetto genovese, fatto sta che lo spettacolo I manezzi pe majâ na figgia, il Govi di Jurji Ferrini (regista e interprete), riempie il Teatro della Corte. Lo spettacolo è in scena fino al 5 gennaio 2017.

Due anni fa la prima sfida: Colpi di timone, nato su suggerimento di Stefano Delfino dopo un'involontaria virata comica con accento genovese di Ferrini sulla scena di Mandragola. Quindi quest’estate (2016), sempre al Festival Teatrale di Borgio Verezzi, il debutto di quest’altro pezzo classico tra le prove goviane. Dialetto genovese e lingua italiana si mescolano. La trama, si sa, somiglia vagamente a Il bugiardo di Goldoni con un’attesissima lettera da Roma intorno a cui gira l’intero intrigo, più o meno amoroso, fino al lieto fine. Maritare una figlia è argomento antico, desueto, che si perdona perché inserito all'interno di un meccanismo comico che si genera soprattutto nei dialoghi legati a un ménage quotidiano tra Steva e la Giggia, Steva e la serva Comba, Steva e Cesare. Le scarse capacità retoriche del padre di famiglia, Steva, vengono compensate dalle sue doti di inventore di parole che non smettono di divertire sull'onda di varianti linguistiche cariche di espressività come lo sc-ciuppon de futta, strazzun d'una serva, appatatarser su una carega, lo spantegare, le imprecazioni andate a farvi leggere tutt'e quante oppure lingua de zavatta, e ancora certe metafore "due uova, come dare un cioccolatino a un cavallo".

Ferrini non altera, ma non mima. Calato nello stesso ruolo che fu di Gilberto Govi, proprio quello de gassetta e pumellu, va alla ricerca di un suo profilo per il personaggio di Steva o Stefano: lo invecchia un tantino; lo clownizza un po’ nel portamento; lo rende più spaesato ancora. Al cospetto della Giggia di Orietta Notari, lo rende inerme, come inebetito dalla forza ragionante e dalla parlata senza inceppi di lei. Decisa, incurante del pensiero di lui, la Giggia è una donna d'affari più che una moglie, tant'è presa dal negozio di maritare bene la figlia Matelda (Arianna Comes). La tirannia di questa donna nei confronti del marito, tra le mura domestiche, fu certo cosa nuova quando il testo uscì (tra '800 e '900) ma anche al tempo della fortuna di Govi. Oggi resta un giocoso stereotipo, ancora intramontato, della, cosiddetta, regina della casa. Marchingegno ancora oliato, il meccanismo di schermaglie tra marito e moglie, ora fatto di compatimenti e fraintendimenti, dove ci si contendono primati e ragioni su priorità di base (Steva e la sua fame) e piani strategici per salire più su in società (il matrimonio).

Sempre con un occhio a Goldoni, da Le smanie per la villeggiatura, e certo ai costumi dell'epoca il testo di Bacigalupo si articola su due ambienti casalinghi: la casa di città e quella di campagna. Abilmente articolato su parti girevoli della scena (Laura Benzi), lo spostamento in villa, si realizza sul palco con un rapido girotondo che tinge di rosa le pareti austere della casa di città, i cuscini e i quadri trasferendo con immediatezza (e pochi aggiustamenti a carico degli interpreti) la storia in un clima più arioso, leggiadro, più frivolo e spensierato - secondo i piani della Giggia atto a favorire il matrimonio della figlia.

Se le fila della narrazione sono un po' logore, le schermaglie verbali resistono al tempo proprio sull'onda della loro familiare stravaganza linguistica. Esilarante poi il gioco metateatrale in cui la Giggia fa da suggeritore al marito, Steva anche detto Barba, perché questi riesca a fare un certo discorsetto allo spasimante e cugino della figlia: preso dal meccanismo lo Steva ripete anche le didascalie, ovvero le considerazioni della Giggia sulle sue doti di interprete. Tiene bene il gruppo di interpreti che si mette al servizio del testo cercando appunto una rivisitazione piuttosto che una piatta restituzione e, senza inventare, rilegge.

Chissà se prendendo spunto da Govi, come già per altri dialetti, anche il genovese riuscirà a tornare ad essere lingua per una scrittura drammaturgica capace di raccontare storie originali dal sapore antico ma in una forma moderna?

Di Laura Santini

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