Teatro e cura nel nuovo Istituto di Gabriele Vacis, costola dello Stabile di Torino

Torino, 09/06/2017.

Si parte il prossimo luglio con awareness campus alle Fonderie Limone di Moncalieri (To): «sono 150 le richieste ricevute - spiega Gabriele Vacis - per cui ora dovremo fare una selezione. Ci sarà un gruppo di titolari circa 15/20, poi però il campus è sempre aperto e si può diventare osservatori, qualcuno poi magari viene tirato dentro anche da quella posizione».

Questo il primo atto (3-16 luglio 2017) dell'Istituto di Pratiche Teatrali per la cura della persona che prevede attività, laboratori, seminari, eventi e “ambienti” dedicati al pubblico questa la nuova avventura teatrale che il regista ha deciso di intraprendere rassegnando già in aprile, con largo anticipo sulla scadenza del contratto (dicembre 2017), le sue dimissioni da direttore artistico de I Teatri di Reggio Emilia (Fondazione I Teatri). Questa la nuova sfida che Gabriele Vacis affronta insieme ad alcuni storici collaboratori, Roberto Tarasco e Barbara Bonriposi collocandosi proprio all'interno del Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale, in un percorso finanziato anche da Regione Piemonte e Compagnia di San Paolo.

Questo primo campus estivo aperto a tutti la dice lunga sul percorso coerente e solido che ha connotato la carriera artistica di Vacis. «Faccio da 40 anni un teatro esclusivo con particolarità tecniche precise, ora voglio fare un teatro inclusivo». Teatro esclusivo il Laboratorio di Teatro Settimo? Mi pare che questa parola strida moltissimo con tutta l'attività teatrale fatta fin qui, ma è chiaro che Vacis sta parlando di un percorso che porta alcune pratiche in una direzione nuova e collettiva. «Certo non si inventa niente. Questo orientamento è iniziato insieme al Teatro Settimo, ora però quello che è importante è che il Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale, massima istituzione della città, prenda atto di un fenomeno e lo accolga. Speriamo che altri seguano l'esempio». Innegabile che ci sarebbe un grande bisogno di forme inclusive da parte di tante altre istituzioni culturali italiane.

Teatro esclusivo, teatro inclusivo, vorrei capire meglio in che modo questi primi 40 di teatro per Vacis si possano definire esclusivi. «È nel dna del teatro una certa esclusività, perché si sta in pochi a teatro, specie se vuoi mantenere un certo tipo di comunicazione. Perciò penso che 1000 o anche 500 persone siano troppe. Con una platea ristretta si riesce a mantenere un feedback tra attori e spettatori, questo è un modo per andare a fondo, per valorizzare l'aspetto identitario del teatro che è l'attore sul palco, un interprete che ti vede e ti sente, che sul pubblico costruisce la propria presenza scenica. Per questo io lascio spesso la luce di sala accesa perché l'attore non si dimentichi mai del pubblico. Questa è anche la ragione per cui continuo a fare teatro, perché credo che resti una grande occasione di scambio e ascolto reciproco».

L'Istituto di Pratiche Teatrali per la cura della persona sarà «un settore dello Stabile, come la Scuola di Recitazione e Torino Danza». Dunque una nuova costola e quali gli spazi individuati per l'attività? «Al momento non ho voluto spazi. Nell'attesa di capire qual è lo spazio giusto per questo istituto. Idealmente però ci sarà un'idea su come dovrebbe essere, no? «La cosa più vicina a quello che ho in mente è il Marina Abramovich Institute».

Durante l'awareness campus oltre a Gabriele Vacis ci saranno anche Domenico Castaldo (attore e regista) e Barbara Bonriposi. «Il lavoro che fa Domenico sulla voce tende a coinvolgere tutti quelli che ci sono e riesce ad arrivare anche a 100 persone. Quella di Barbara è invece una pratica più indirizzata, più individuale o in piccolissimi gruppi. Ma in generale l'impostazione prevede che se ci sono momenti della giornata in cui si sta lavorando e si è in cento, si tratta di ascoltarsi in cento. Ci saranno poi momenti della giornata con ospiti» nel tempo questo percorso è diventato un metodo definito da Vacis la Schiera ovvero «la costruzione di un tempo e uno spazio in cui far accadere il teatro, quindi l'ascolto e la visione sono i principi che fondano il mio teatro». La Schiera, al Teatro Valle per esempio ma anche in altri contesti, ha accolto tanti ospiti da Cristina Pezzoli a Marco Paolini, da Natalino Balasso a Gerardo Guccini (docente del DAMS di Bologna).

Non intendo arrivare a una semplificazione ma a comprendere questo Teatro che opera tra arte e terapia. «Si fa sempre più strada l'idea che la medicina sia un'arte oltre che una scienza. Anche il teatro è un arte certo ma non si può negare che sia anche una scienza, vedi la biomeccanica di Mejerchol'd oppure penso alla ricerca di Grotowski che ha lavorato sempre sul parateatro. Il concetto di awarenesss l'ho mutuato da lui, è l'attenzione psicofisica, non è la consapevolezza come la intendiamo in italiano, è l'attenzione di un calciatore o quella di uno scrittore, il corpo è sempre presente. Sono un regista, ma ho maturato anche un'esperienza sulle tecniche pedagogiche perché ho insegnato tanto, senza che fosse una mia inclinazione. Quando mi chiesero per la prima volta di insegnare alla Paolo Grassi, partii dicendo "io faccio spettacoli, non insegno". Poi mi sono appassionato a trasmettere tecniche, ma anche un certo tipo di sensibilità e di attenzione. La trasmissione delle tecniche non è mai un gesto vuoto e credo che vada ancora perseguita. Gli ambiti di arte e scienza vanno tenuti separati, ma mi piace lavorare accanto agli scienziati, così penso di utilizzare a mia volta la loro scienza. Oggi cambia tutto molto rapidamente e questo ci costringe a rivedere anche le tecniche e quindi se non abbiamo un atteggiamento di ascolto e di attenzione di sè e degli altri e del tempo siamo fregati, perché il mondo corre avanti». 

Se didattica e pedagogia erano territori altri, che cosa ha portato Vacis ad appropriarsene? «In realtà mi è sempre interessata la questione pedagogica, perché mi interessa il rapporto tra le generazioni. Il mio maestro delle elementari mi ha insegnato quello che lui aveva imparato. Oggi un maestro di 50anni cosa insegna? Quello che insegnamo oggi dovrebbe porci delle domande. Lo stesso vale per le relazioni umane, per il teatro, per la medicina. Come ci poniamo con i migranti visto che non stiamo vivendo un'emergenza. In Italia continuiamo a pensarla così, come un'emergenza ma non la è. Ricordo la trasformazione di Settimo Torinese che da 7mila abitanti passo in fretta a oltre 25mila. Oggi le cose vanno ancora più rapidamente. E allora mi sembra che le tecniche mediche, sociologiche e teatrali e cinematografiche debbano confrontarsi. Le tecnologie hanno dato ampio accesso a tutti per fare foto e video, così è per il teatro: sono molte di più le persone che fanno teatro che quelle che vanno a teatro». 

Corpo, voce, ascolto, attenzione, il lavoro di Gabriele Vacis è stato però nel tempo soprattutto rivolto alla narrazione, alla parola che racconta, che evoca, che recupera e rielabora la memoria, anche quando è dolorosa. Oggi il lavoro di interviste ai migranti continua a percorrere quel sottile filo, fitto di rischi, di smuovere un intimo ferito profondamente. «Quando mi faccio raccontare le storie personali mi comporto esattamente come quando lavoro con Marco Paolini per il Vajont, con Laura Curino per Olivetti, con Lella Costa. Questa è un'evoluzione del lavoro fatto in 40 anni».

Però in questo caso si tratta di persone reali e storie vissute sulla loro pelle, sono materiali incandescenti. «Sì certo, c'è un grande rischio. Me ne accorsi già dopo il successo del Vajont in TV. In un incontro a Milano ricordo un primo esempio di risposta che mi poneva il problema del fanatismo. Un signore si alzò e ci disse "dovete prendervi la responsabilità di questa storia farne un movimento politico". All'epoca ci siamo molto spaventati e ci siamo tirati indietro. Noi abbiamo deciso di stare da questa parte del fosso, nella consapevolezza che ormai tutto assume una spettacolarità elevatissima. Bisogna stare molto all'occhio. Per questo i video-colloqui con i migranti, sia chi è in Italia da tempo, sia chi è arrivato a Settimo da poco, li conduciamo in collaborazione con varie associazioni e con i diversi operatori, socio-sanitari. Questi video-colloqui permettono di scoprire cose e farsi raccontare storie che altrimenti è difficile farsi raccontare. Dell'inferno libico per esempio sappiamo pochissimo, poi appena ti addentri nel racconto diventa più tragico di quanto si immaginasse». Tra le associazioni coinvolte Mamre, di cui è presidente Giuliana Galli; il Centro Fenoglio; Casa Oz, che «si occupa di sostegno alle famiglie dei bambini in ospedale al Regina Margherita».

La forza della narrazione è indubbia, personalmente sia il Vajont che Olivetti sono diventate una specie di bagaglio di ricordi quasi come quelli familiari miei propri. «Con Vajont e Olivetti, ci siamo resi conto delle potenzialità delle narrazione in particolare quando abbiamo portato queste storie nei luoghi o tra le persone che potevano avere un legame con i protagonisti o tra i discendenti delle vittime. Inizialmente, pensavo fosse un gesto blasfemo, invece mi sono reso conto che aveva un effetto catartico. Nessuno parlava più di quelle storie e i giovani non le conoscevano. Ci voleva allora qualcuno che venisse da fuori a raccontarle di nuovo. Lo stesso per Ivrea, dove una storia di coraggio e riscatto del territorio non trovava riscontro né tra i giovani né in generale tra la gente. Nessuno si ricordava più quanto fosse stato difficile realizzare il progetto. È stato utile che qualcuno la raccontasse di nuovo. Purtroppo però si parla tanto di narrazione ma se ne fa pochissima. Anche i politici ne parlano continuamente, ma loro parlano di costruzione della realtà. La TV offre una narrazione che ha a che fare con una realtà percepita non di fatti e dati. Gli immigrati in Italia sono l'8% non il 30%, ma parlando di percezione del fenomeno si trasformano tutto di conseguenza e allora conta il percepito e non quello che è documentato. Io quando racconto Vajont mi assumo la responsabilità dei dati, la narrazione determina la realtà. Ora invece la narrazione costruisce e conferma delle realtà inventate. In questo mondo qua l'Istituto di Pratiche Teatrali per la cura della persona è una necessità assoluta». 

Si parte dall'awareness campus e poi come si procede? «Per il momento c'è il campus che servirà da incubatore. Da lì uscirà anche una programmazione». Sono tanti gli artisti italiani che si sono spostati verso un fare teatro che ricostruisca tessuto sociale che vada incontro alle persone e le coinvolga attivamente penso a Marco Martinelli e alla sua non-scuola e a Virgilio Sieni. «Verissimo, sia Martinelli che Sieni li ho chiamati a Reggio Emilia poi ho chiamato anche Chiara Guidi che ha fatto un lavoro per i piccolissimi. L'inclusione ormai non è più un'azione ma una poetica».

Di Laura Santini

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