Ferdinando Scianna: «Il mondo ha cambiato le mie foto»

Paolo Morelli
Camera. Centro Italiano per la Fotografia Cerca sulla mappa

Torino, 14/04/2017.

«Ho iniziato a fotografare la Sicilia perché ce l’avevo lì, ma certo non era lì perché aspettasse di essere fotografata da me». Viene da Bagheria, Ferdinando Scianna, classe 1943, espressione accigliata e severa ma parlantina svelta, sempre incline alla battuta ironica. Fu il primo italiano a entrare nella Magnum, l’agenzia fotografica più importante del mondo. «Ho fatto il fotografo per scappare dalla Sicilia», dice.

Mentre si aggira tra gli spazi di Camera Torino, dove è allestita la mostra L’Italia di Magnum, con una stanza dedicata a lui, Scianna osserva e tira fuori una macchina fotografica da una tasca. Scatta, sorseggia un bicchiere d’acqua e passa oltre. Tra un’intervista e l’altra snocciola qualche battuta e si sofferma a rispondere a un’ultima domanda prima di entrare nella Sala Gymnasium, dove una platea foltissima lo attende per l’incontro con Walter Guadagnini, direttore di Camera Torino.

Di Scianna, Leonardo Sciascia disse: «È, il suo fotografare, quasi una rapida, fulminea organizzazione della realtà, una catalizzazione della realtà oggettiva in realtà fotografica: quasi che tutto quello su cui il suo occhio si posa e il suo obiettivo si leva obbedisce proprio in quel momento, né prima né dopo, per istantaneo magnetismo, al suo sentimento, alla sua volontà e, in definitiva, al suo stile».

«Quando ti sposti in un’altra realtà – ha spiegato, prima dell’incontro, Ferdinando Scianna – insieme alle cose che scopr, vedi delle cose che già conosci. Guardi sempre con gli occhi del ragazzo siciliano che eri». È giovedì 13 aprile, tra la piccola platea nata intorno alla telecamera che riprende Scianna, con comprensibile fastidio dell’operatore, ci sono abbigliamenti disparati, giacche di fianco a t-shirt. Ma non vola una mosca: la tentazione di togliere la giaccia è soffocata dalla paura di perdere qualche parola.

A dispetto dello sguardo glaciale, Scianna trasmette un forte senso di umiltà, che è poi il segreto – ma è davvero un segreto? – per fare un buon lavoro. «Quando arrivo in un posto – spiega – mangio del cibo di strada, perché così ho in bocca lo stesso sapore che hanno le persone che andrò a fotografare. Ho mangiato i cibi peggiori, senza sapere nemmeno cosa fossero».

Banale? Per niente. Spesso l’ansia di raccontare qualcosa, e su questo Scianna insiste, prende il sopravvento rispetto all’idea: prima di tutto, cosa raccontiamo?

«Le regole – precisa – non sono cambiate rispetto al passato. Sono cambiati gli strumenti e la necessità che l’essere umano ha di raccontare. Certo, oggi c’è sovrabbondanza d’immagini, ma le persone hanno sempre raccontato storie prima dell’esistenza della fotografia, potrano continuare a farlo anche dopo la la loro eventuale scomparsa. Si può morire anche di inflazione».

Il tema delle regole è centrale. Scianna dondola sulla sedia, sospeso tra una parete di sue foto e la telecamera, ci pensa un po’ su e risponde sornione «il dialogo, ci deve essere un dialogo tra chi scatta la foto e chi la osserva. Certo, ci sono delle regole per scattare una buona foto, ma deve essere memoria e racconto. Ho creduto che attraverso la fotografia avrei potuto migliorare il mondo, invece il mondo ha cambiato le mie foto. Una brutta foto, invece, lo peggiora».

Se dici “racconto” pensi al libro. O almeno questo vale per Scianna, che per il suo incontro ha preparato una serie di slide fatte di libri, con libri fatti di foto, con foto che sono racconti.

«Tutto ciò che è importante – annuncia – prima o poi finisce in un libro, così diceva lo scrittore Alberto Savinio». E tutto cominciò con un libro e con Leonardo Sciascia. Più di cinquant’anni fa, il giovane Scianna catturò l’attenzione dello scrittore per alcuni suoi scatti realizzati in Sicilia. Lo raggiunse in una casa «di una monacalità spartana straordinaria», quella stessa casa dove tempo dopo conobbe Henri Cartier-Bresson, che poi gli aprì le porte della Magnum.

Quello tra Sciascia e Scianna fu quindi un incontro destinato a cambiare le vite di entrambi e che nel ’65 diede vita al primo libro, Feste religiose in Sicilia, pubblicato da Leonardo da Vinci. Fu, quello, un libro che indicò al giovane Scianna quale strada seguire.

«A parte il sesso – ironizza – con Sciascia è stata una storia d’amore. In 26 anni di amicizia mi ha fatto solo una cosa cattiva: morire. Quello non me lo doveva fare». Sciascia fu un maestro, un «angelo paterno», una guida intellettuale e artistica. «Non credo che esistano ancora intellettuali così­ – commenta – e questo accade anche altrove. Ora provo una forte mancanza. Nella vita mi sono affidato a maestri che ho avuto la fortuna di incontrare. Il problema dei maestri, però, è che poi muoiono, perché sono più grandi di te. Quindi spero di non essere il maestro di nessuno».

E di Sciascia ricorda aneddoti divertenti, affettuosi, come quando riuscì, unica volta in vita sua, a parlargli di un libro che non aveva letto. «Era un evento – precisa – perché avveniva con me, che ero di un’ignoranza enciclopedica, nel senso che non sapevo nulla su qualunque materia».

Ma il suo continuo citare scrittori sottolinea l’importante legame che la fotografia ha con la letteratura, «più che con la pittura, che ha regole diverse». Come ha dichiarato in altre occasioni, per un fotografo è importante avere cultura, conoscere le cose, leggere, rapportarsi ai libri. Dietro ogni scatto c’è una storia, una realtà da interpretare.

Di Paolo Morelli

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