Sangue Matto: Schiller cura la violenza in classe, dal degrado sociale al bullismo

Lanna
Teatro Ivo Chiesa Cerca sulla mappa

Genova, 30/06/2017.

Può la violenza essere una risposta a degrado sociale, difficoltà di integrazione e bullismo tra adolescenti? Si può ancora parlare di educazione se per ottenere l'attenzione dei propri allievi li si minaccia con una pistola? Si può usare il gioco di ruolo in classe, il teatro, per esorcizzare i mostri interiori di un gruppo di giovani provenienti da contesti complessi o con vissuti sofferti, mettendo in atto di fatto un abuso di autorità e potere? Si può andare a scavare in un intimo fragile e dolente mentre si insulta e si annienta verbalmente l'altro/a?

Queste alcune delle domande che suscita Sangue matto, drammaturgia in lingua tedesca (titolo originale Verrücktes Blut) scritta a quattro mani dal regista e scrittore di origini turche Nurkan Erpulat insieme al tedesco Jens Hillje, anche lui regista e autore teatrale - ancora in scena alla Piccola Corte fino al 1 luglio 2017 per l'ultima mise en espace della Rassegna di drammaturgia contemporanea 2017.

Contravvenendo a presupposti, esempi, riflessioni di ogni teoria educativa moderna che guarda alle punizioni corporali e a ogni forma di coercizione come a un odioso esempio da non ripetere, Erpulat e Hillje si divertono a mettere in pratica un rovesciamento. La lezione di Don Milani continua ad affiorare per negazione. Rispetto a Barbiana, qui si pratica il contrario, qui a violenza si risponde con violenza fisica, verbale, psicologica. Come in un esperimento da laboratorio i due autori sembrano chiedersi: E se invece mettessimo una pistola in mano a un/a docente che non trova più risorse né strumenti per insegnare letterarura in una classe problematica di periferia?

Nella regia di Elena Gigliotti questo assunto porta a una trasformazione del palcoscenico e del contesto in cui questo travestimento si consuma. L'attrice che veste il ruolo della prof. (Cristina Pasino) cambia costume: smette i panni di una femminilità composta e tradizionale, per vestirne di meno accondiscendenti che la allontanino da facili stereotipi materno-educativi e le restituiscano la sua identità: «Io non sono la vostra prof., io sono un'attrice», dirà con rabbia. Si entra in un incubo. Siamo tra le righe di una distopia. Il fine è parzialmente condivisibile, insegnare Schiller, il suo teatro, lo Sturm und Drang e di conseguenza i valori della libertà individuale, della dignità, della forza di autodeterminazione contro chi prevarica. Di prevaricazione però si nutre tutto quanto va in scena da qui fino alla fine della pièce.

L'incubo è tanto quello dell'insegnante, una Pasino che si dilania interiormente, ma agisce in preda a un raptus verisimile, vorticoso e sadico. Tanto quello vissuto dalle sue ragazze e ragazzi, in classe, fuori e nei propri contesti familiari. Chi sono questi studenti e studentesse? Rispetto al testo originale che li voleva tutti figli di emigranti turchi, qui gli individui rispondono piuttosto al contesto italiano e al melting pot che potrebbe trovarsi in una delle nostre classi di provincia in Italia. C'è Mariasole, affetta da una disabilità cognitivo-espressiva. Denis, con un forte accento del sud, vittima di un padre-padrone violento e, forse, pedofilo. Giusy mussulmana in classe con il velo. Pierpaolo, dai vestiti modaioli, un semplice prepotentello di estrazione medio-borghese. Angelo la vittima della classe, picchiato e bullizzato. Jacopo il pavido. Alex, il secchione, omosessuale. In ordine alfabetico Giuseppe Brunetti, Roberta Catanese, Fabrizio Costella, Riccardo Marinari, Silvia Napoletano, Francesco Patané, Alessandro Pizzuto.

Nell'originale il conflitto era tra generazioni ma anche tra modi di intendere e vivere la cultura della famiglia rispetto a quella del paese in cui si vive e forse si è nati e cresciuti. L'incubo è reso poetico ma non meno feroce dagli inserti tratti da una lettura che si fa recita de I masnadieri di Schiller: «ma la sanno a memoria», commenterà a un certo punto Pierpaolo, uno dei ragazzi sfidanti, incredulo di fronte alle doti nascoste dei compagni. Un incastro che permette di sondare tutto il politicamente scorretto di questa vicenda. Di attraversare quell'immaginario che, molto probabilmente, percorre la mente di tanti docenti sottoposti a un confronto quotidiano con situazioni scolastiche limite.

Lo spettacolo comincia nel foyer del Teatro della Corte accanto al motorino di Denis non sul palcoscenico. Come stormi impazziti, i ragazzi si spintonano, ridono forte, si insultano, si scambiano scherzi pesanti correndo di qua e di là tra gli spettatori inizialmente ignari. Prima di entrare a scuola/in scena, offrono in questo prologo tutta la dirompente carica dei loro 'ego', poi costretta tra i banchi. Se questa fosse già un'indicazione del testo o meno, certo nella regia di Elena Gigliotti permette una caratterizzazione più attenta a definire dei tipi sì, ma senza irrigidirne troppo i toni, mantenendo in ognuno una certa possibilità connaturata a un'identità in evoluzione, capace di scarti, di comportamenti di comodo, di aggiustamenti dovuti al caso o nati all'improvviso sullo spaesamento da inesperienza.

Liberi da battute (o quasi) e dall'idea della prestazione da palcoscenico, gli interpreti costruiscono in verticale i propri personaggi in questo prologo. La guida di Gigliotti coglie dunque nel segno ottenendo dai 7 neo-diplomati allievi della Scuola di Recitazione dello Stabile di Genova, una prova sia a livello individuale che corale avvincente, mentre la favola-distopica si consuma nelle lunghe battute schilleriane che sempre di più vestono il parlato dei personaggi, ora percepite come boccata d'ossigeno, espressioni di rabbia più articolate e fascinose della sguaiataggine limitata di oggi; ora, invece, troppo antiche e distanti per offrire un qualsiasi appiglio salvifico al degrado contemporaneo. Intuizione non meno felice quella di portare in scena anche la figura della bidella o collaboratrice scolastica della scuola, interpretata in una partecipazione amichevole ma molto ben resa, da Miranda Gaggero, per anni custode della Scuola di Recitazione dello Stabile di Genova: «Aula di merda. Guarda qui, porci!».

Ne esce un ritratto impietoso ma anche parzialmente documentaristico della scuola, da cui emerge un profondo scoramento, un senso di frustrazione e impotenza reso più malinconico da alcune scelte musicali in cui la voglia di riscatto passa per vecchie liriche in bocca a una nuova generazione nutrita solo a disillusione, volgarità e ira contro tutto e tutti, inclusi se stessi.

Da vedere.

Di Laura Santini

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