Piccolo 70. Ostermeier torna a Milano con Richard III: la recensione

Arno Declair
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Milano, 26/05/2017.

Piccole e insidiose mosche. Contro voli di armoniose ali. Le prime appaiono a punteggiare la scena, spartana e moderna, di ferro e cemento, accompagnando idealmente uno dei villain più famosi della drammaturgia shakespeariana, Richard IIILe seconde segnano al contrario ogni nobile caduto, vittima delle spietate e cruente trame in cui li intrappola e annienta il Plantageneto. Talvolta sono quelle indugianti di nobili rapaci, altre quelle più numerose di ampi stormi nella produzione di Thomas Ostermeier.

Il regista tedesco e direttore della Schaubühne di Berlino torna al Piccolo di Milano nell'ambito delle attività per i 70 anni del teatro dopo 18 anni di assenza (l'ultima volta portò Disco Pigs di Enda Walsh) e festeggia proprio a Milano, sabato 27 maggio, la centocinquantesima replica di questo Richard III. «Per questa lunga assenza, il mio viaggio a Milano diventa paradossalmente una sorta di ritorno alle origini», spiega Ostermeier.  

Moschine irritanti contro dispieghi alari, dal battito ora rapido ora lento, sintetizzano moralmente i due mondi che si fronteggiano in questo lavoro, senza falsi pudori centrato sul personaggio principale. Si parte dagli eccessi di una corte godereccia e in festa per la pace restaurata da Eduard IV di York, da cui il deforme, incompiuto, mandato anzitempo nel mondo («deform'd, unfinish'd, sent before my time») è escluso: «I, that am not shap'd for sportive tricks» (io che non sono fatto per le lussurie dell'amore). Piovono lustrini e stelle filanti, la musica è alta, altissima amplificata dalla batteria accanto al palco agitata da Thomas Witte. In costumi eleganti, rigorosamente bianco e nero, entrano in scena dalla platea cortigiani e nobildonne che affiancano il re e la regina in danze sfrenate, bevute e palpeggiamenti. Lui però è estraneo a tutto ciò. Solo testimone astioso.

Si lascia presto questo fragore, infatti, per essere introdotti in un'altrettanto fragorosa e disturbante realtà che è quella tutta interiore, strategica, vendicativa, crudelmente divertita, della mente calcolatrice del fratello del re, Duke of Gloucester. Una tragedia intimista diventa questo lavoro di Ostermeier che mette letteralmente a nudo ogni pensiero malvagio che percorre gli animi umani e che qui si traduce in azione, diretta o indiretta, che sia prodotta dall'immaginario di Richard III. Tutto in questo allestimento di Ostermeier ruota intorno a Richard III. Nessun altro ha la sua statura, il suo peso, la sua presenza scenica nel disegno registico. È una corte che crede di ruotare intorno alle proprie alleanze e gerarchie, ignara di essere vittima di un temibile vortice, misera recita presa nelle maglie di un abile marionettista.

Nella sua introduzione all'edizione Arden di questo dramma storico, Antony Hammond ricorda la precisa struttura formale di questo play che rimanda tanto a Seneca, e per l'intrecciarsi di questioni politiche e morali anche a Eschilo, senza contare il debito che chiaramente ha verso il filone dei revenge drama o tragedy of blood. Hammond però aggiunge un ulteriore elemento caratterizzante e che si sposa con la lettura tanto puntuale, meticolosamente rispettosa che ne dà Ostermeier in questa regia piuttosto casta (nudi inclusi) e filologica: Richard mette in scena tanti piccoli drammi nei primi tre atti, ostentando il suo articolato manovrare verso l'obiettivo ultimo, che è il trono. Proprio in questa ostentazione, nell'indugiare sui particolari di ogni azione, Richard raggiunge un altro obiettivo. la messa in scena di un compiaciuto show non dissimile da quello di Jago - come ricorda un altro studioso shakesperiano, Thomas F. Van Laan - dove esibire ed esibirsi è il fine - specie negli acrobatici corteggiamenti verso donne a cui ha trucidato marito o figli: Lady Anne e Elizabeth. Richard è dunque soprattutto impegnato a realizzare i suoi vari travestimenti, lì sta il suo reale godimento, nell'essere artefice di scene di seduzione (anche verso i personaggi maschili) tanto magistralmente condotte, piuttosto che l'esito concreto dello smantellare ostacoli al potere. 

Ostermeier sposa dunque una delle letture più aperte di questo cattivissimo shakesperiano: né pazzo né solo spietato, piuttosto furbescamente patetico perché manipolatore della propria e dell'altrui condizione e psicologia, sempre e solo a suo vantaggio, ovviamente. Un vendicatore di mestiere e arte. Appoggiato a una natura inclemente, Richard III è la vittima delle vittime, esaspera la sua condizione per un perverso scambio di sguardi, in cui la pietà suscitata apre una breccia all'odio istintivo nei suoi confronti che permette di colpire e quindi di gustarsi il dolore altrui in una rara complessità di forme. Con eccessi d'ira, di appetiti, di costumi, di toni questo Richard III è catalizzatore indiscusso dell'attenzione e ogni altro personaggio è realmente quasi solo una pedina su una misera scacchiera.

Ostermeier sfrutta ogni elemento per tenere Richard al centro della scena. Stringe tutto sul proscenio. Sposta i soliloqui a ridosso del pubblico, fisicamente e uditivamente. Ma sussurri o a parte, questi passaggi di flusso di coscienza sono intensi dialoghi rivolti a costruire empatia tra lui e il pubblico, accattivanti esercizi condotti ad arte e resi ancor più minacciosamente convincenti dall'uso di un microfono. Questo penzola a centro palco e amplifica ogni eccesso. È l'eccesso in sé. Perché include anche una piccola telecamera e dunque è l'io fatto strumento. Così eccolo: sguaiatamente giocherellone, follemente minaccioso, disgustosamente umano, Richard Richard Richard. Puntando a esibire nei gesti oltre che in parole più nette (nella tagliente traduzione di Marius von Mayenburg), ciò che di marcio e nascosto alberga in ognuno di noi, il regista crea un adorabile mostro che l'interprete Lars Eidinger incorpora con indubbia dedizione, spendendosi interamente, anche in piccole improvvisazioni momentanee con il pubblico in sala (per esempio, per sgridare qualcuno con il telefonino ancora acceso o quando nell'applaudire ai gesti del temibile tiranno che lui incarna, gli ricorda la stortura di certo entusiasmo).

Sguardo sempre più introspettivo, per finire su una scena abitata solo da fantasmi e un duello finale in cui Richard si slancia nel vuoto contro chi non è più neanche dato riconoscere. Il nemico è aria perché tutto gli è ostile. Certo ci sono Richmond e la sua armata da fronteggiare, ma siamo alla chiusura del dramma quando il gioco dei ruoli  ha perso ormai ogni margine di spietato godimento per Richard, tormentato come ogni anima umana, dai molti occhi e volti di chi ha ucciso. La spada risuona su una scena rimasta vuota e priva di altre sonorità e/o personaggi, ora colpendo parti metalliche ora i muri e le scale. Il gesto è vano e vacuo, è più un copro a corpo con se stessi che una cavalleresca sfida. Sempre al centro, seppur sconfitto, Richard è resto umano lasciato al ludibrio delle genti. Al posto del microfono che ha amplificato il suo gesto, ora storto e scomposto penzola lui.

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Piccolo Teatro Strehler
dal 25 al 27 maggio 2017

Richard III
di William Shakespeare, traduzione Marius von Mayenburg
regia Thomas Ostermeier
scene Jan Pappelbaum, costumi Florence von Gerkan, luci Erich Schneider
musica Nils Ostendorf, video Sébastien Dupouey
drammaturgia Florian Borchmeyer, burattini Ingo Mewes, Karin Tiefensee
con Lars Eidinger, Moritz Gottwald, Eva Meckbach, Jenny König, Sebastian Schwarz, Robert Beyer, Thomas Bading, Christof Ertz, Laurenz Laufenberg, Thomas Witte (batterista/percussionista)
produzione Schaubühne Berlin

Spettacolo in lingua tedesca con sovratitoli in italiano

Di Laura Santini

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