Il Sessantotto a fumetti di Gianfranco Manfredi, l'intervista

Magazine, 19/06/2018.

Il 1968. Il Sessantotto. Un numero che è diventato icona di un momento storico importante, nel quale emancipazione, femminismo, pacifismo e naturale propensione alla ribellione si sono dati appuntamento nelle aule delle università, nei licei occupati e nelle piazze.

Difficile, impossibile per certi versi, anche a distanza di 50 anni, mettere quel momento nella giusta prospettiva, forse anche per questo Gianfranco Manfredi, narratore abile a unire suggestioni narrative con basi storiche solide, ha raccolto la sfida di raccontare quella fetta di storia d’Italia compresa tra la fine degli anni sessanta e i due decenni successivi e che ha vissuto non solo come testimone diretto ma anche come attivista, mettendo al centro del racconto cinque ragazzi raccontati lungo il percorso di crescita chiamato vita.

Sessantotto, Cani sciolti (Bonelli Editore, 144 pp, 19 Euro) non è un’opera didascalica, non un romanzo storico, è soprattutto una finestra aperta su quel momento storico. Armando, Lina, Pablo, Milo, Tri, Margerita sono i protagonisti del volume che apre la strada a una serie che vedrà la luce nei prossimi mesi e che si chiamerà, semplicemente, Sessantotto.

«I cinque protagonisti - racconta Manfredi - sono giovani figli della borghesia. Piccola borghesia in certi casi, che diventa alta borghesia nel caso di Margherita. Essere figli di borghesi, per noi – lo stesso Manfredi nel 1968 aveva 20 anni - non significava fare i figli di papà, tantomeno avere aspirazioni borghesi (soldi, carriera, successo), anzi, era il punto di partenza per cambiare la propria condizione di vita».

Per i ventenni di allora la protesta era allontanarsi dall’albero da cui si era caduti per costruirsi un futuro proprio: «Esemplare in tal senso - argomenta - il film Il laureato, vero emblema del ‘68: Dustin Hoffman è un ragazzo che torna dal college. Un amico del padre gli consiglia come inserimento sociale la plastica. Ecco, noi rifiutavamo questo genere di inserimento sociale».

Sessantotto è un racconto corale che già nel primo volume racconta molto di un gruppo di ragazzi che ritroviamo, quarantenni, nella seconda parte. Non una biografia, ma neppure un racconto di avventura; piuttosto, a voler inserire il volume in un genere, più attinente definirlo dramedy.
«È una definizione in voga, riguardo a certi serial TV che mescolano commedia e dramma. Un neologismo, ma non ritengo sia una novità. Secondo Aristotele dalla mescolanza tra commedia e tragedia nasce il racconto epico. E questo racconto è in effetti epico, anche perché mescola vicende personali e vicende collettive», la vita dei ragazzi mentre attorno scorre la storia di un paese giovane, a pensarci anche l’Italia repubblicana, nel 1968, aveva solo vent’anni, con drammi e momenti di intensa partecipazione. 

«Ho scelto di raccontare il sessantotto (e gli anni 70) dal punto di vista di un gruppo di amici che si conoscono nemmeno ventenni nel corso delle prime occupazioni universitarie milanesi e che restano amici anche negli anni 80». La loro crescita e il contesto attorno.

«I personaggi sono inventati, le loro esperienze no. Alcune delle loro esperienze le ho vissute personalmente, altre mi sono state raccontate da amici. Di per sé - confessa Gianfranco - mi interessa assai poco il dibattito 68 sì, 68 no in quanto il 68 c’è stato e dunque c’è poco da dibattere: chi c’era e se lo è perso, si è perso molto; chi non c’era può conoscerlo meglio attraverso le esperienze reali di vita. D’altro canto – aggiunge –, questo è sempre stato l’approccio dei narratori: qualunque sia l’ambientazione, se la storia non è storia di qualcuno, non è una storia. Non si tratta, nel caso, di romanzarla in quanto la nostra vita in quegli anni è stata romanzesca di per sé. Accadeva di tutto e avevamo la sensazione di partecipare a tutto, anche con qualche smarrimento, perché gli eventi che ci piovevano in testa erano spesso più grandi di noi».

Al centro del volume, un lungo e partecipato numero zero, una fotografia scattata durante un corteo del 68 che rappresenta i protagonisti giovani, bellissimi e con in mano tutta la propria vita come se fosse una pietra e non sabbia in una clessidra.  La stessa foto emerge dopo venti anni come a voler chiamare a raccolta i cinque amici chiamati a fare bilanci, non solo progetti.
«Per la serie Sessantotto – racconta Manfredi – non ho tenuto un ordine cronologico rigido: ci saranno frequenti flash forward su come sono diventati i protagonisti alla fine degli anni 80, ma anche parecchi flash back che riguardano la loro infanzia, i ricordi di loro amici con qualche anno più di loro, donne e uomini cresciuti sotto i bombardamenti, quelli dei loro genitori (un paio dei quali hanno fatto la Resistenza), persino quelli di una nonna. In altre parole, questa è una specie di saga generazionale che ripercorre momenti cruciali di Storia Italiana attraverso esperienze di vita».

Al centro della foto, un’iscrizione, Dove siete?  che non è solo invito a ritrovarsi ma anche, e soprattutto, occasione per bilanci a distanza di un ventennio anche doloroso per il nostro paese. «In questo primo volume, si parte dall’occupazione dell’Università di notte; una scelta che oggi appare scontata e che fu invece molto importante.  All’epoca - ricorda il papà di personaggi come Magico Vento, Volto Nascosto e Adam Wild passato anche attraverso icone come Dylan Dog e Tex – passare la notte fuori casa, per dei ragazzi, voleva dire entrare in diretto conflitto con i genitori. Per le ragazze poi era davvero un’impresa coraggiosa: voleva dire contrastare abitudini sociali e codici morali radicati. In altre parole, le scelte politiche passavano per quelle personali. Non erano soltanto scelte ideali, ma soprattutto pratiche. Lo sgombero dell’Università occupata di cui racconto, ad esempio, l’ho vissuto personalmente».

Racconto personale che diventa narrazione, «perché – confessa Manfredi - c’è una bella differenza tra inventarsi una storia e raccontare un’esperienza vissuta». Il racconto del vissuto dei protagonisti diventa così occasione di incontro tra i giovani di ieri e quelli di oggi, diverso il passo, uguale il cuore, citando il motto degli scout di Dragonero«Va precisato che ogni manifestazione aveva un obiettivo ben definito: si manifestava contro la guerra, contro l’autoritarismo, contro la repressione, per le rivendicazioni salariali, per la casa, per il divorzio, per l’aborto e altro ancora. Chi era d’accordo, veniva. L’obiettivo non era la manifestazione in sé, tantomeno gli scontri, che erano solo consequenziali. Non si andava in manifestazione per il gusto di scontrarsi contro la polizia. Si manifestava per obiettivi Sociali precisi. Questo stesso atteggiamento lo si è visto, oggi, con Occupy Wall Street e – è storia di questi giorni - con le manifestazioni degli studenti americani contro le armi». «E ciascuna generazione può scegliere se lottare per cambiare la propria vita o se restarsene seduta ad aspettare che i cambiamenti vengano dalle cose o piovano dai governi».

Diversa invece la sua analisi del contemporaneo, tanto che alla domanda su cosa sia la ribellione oggi risponde con un’analisi tanto approfondita quanto caustica. «Un mezzo disastro, soprattutto dal punto di vista sociale. Una delle differenze è oggettiva: noi eravamo baby boomers, la generazione del dopo guerra, ed eravamo tanti; molti prima di noi erano morti in guerra, noi non volevamo avere lo stesso destino: ecco perché si manifestava contro la guerra in Vietnam o contro la Bomba. Oggi - osserva - viviamo in un paese per vecchi. I giovani sono di meno, non fanno figli, i più attivi se ne vanno a cercare migliori opportunità all’estero. Da un punto di vista legato alla coscienza politica invece, «la televisione e Internet ci hanno abituato alla solitudine casalinga, a vedere il mondo dalla finestra. Di solidarietà generazionale ce n’è poca, di consapevolezza dei rapporti sociali pochissima, perché i lavori sono volatili, siamo in epoca post-industriale, non si capisce più cosa sia un rapporto di lavoro».

Oggi sembra che la cosiddetta Sindrome di Peter Pan sia un’epidemia che occorre affrontare con il coraggio necessario per mettersi in discussione, per trovare davvero quel che è davvero importante e arrivare a fare tutto quello in nostro potere per realizzarlo. «I tanto celebrati Young Adults di oggi sono, in larga parte, Adults Young, cioè adulti che pretendono di restare ragazzi per tutta la vita, che rimangono a casa dei genitori magari fino a quarant’anni. Noi ce ne andavamo da casa anche a sedici anni. Mia moglie, racconta, ha cominciato a lavorare a tredici anni, ha ripreso gli studi soltanto dopo, per noi la giovinezza era un tempo da spendere in fretta, non da prolungare all’infinito».

Di Francesco Cascione

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