La sinistra senza strategia diventa perdente

Magazine, 10/11/2017.

L’elemento di identificazione della sinistra deve essere la difesa dei soggetti deboli e la limitazione delle diseguaglianze sociali, ottenuta con un’ampia distribuzione di benessere e diritti. Ma questo obiettivo sul posto di lavoro, è raggiungibile solo marginalmente, perché deriva invece principalmente dal quadro politico/sociale del sistema paese: la miseria dei servi della gleba era conseguenza della loro mancanza di diritti, così come la diffusione di benessere e libertà dei paesi avanzati, nella seconda metà del secolo scorso, era generata dall’affermarsi del regime democratico.

Fino a buona parte del secolo scorso la sinistra ha difeso i proletari, inizialmente pari al 97% della popolazione, in quanto soggetti deboli senza diritti; era corretto allora sia identificare i lavoratori con i proletari per l’identità dei due ruoli, sia utilizzare il posto di lavoro come punto di agglomerazione e di rivendicazione. Così la sinistra e il sindacato sono stati allora la forza trainante del processo democratico, mentre la teoria del plus valore ha offerto una legittimazione assoluta senza se né ma.

L’equilibrio si è rotto nella seconda metà del secolo scorso, quando è caduta della distinzione borghesia/proletariato e si è realizzata, nelle democrazie avanzate,  la società indifferenziata con il 50% della popolazione che fruisce del 50% delle risorse, rimanendo un 35% troppo povero e un 15% troppo ricco (dati Banca d’Italia anni 1990). È  caduta  così l’identità lavoratore/proletario, mentre lo stesso lavoratore può trovarsi alternativamente nel ruolo di privilegiato da combattere o di soggetto debole da difendere.

Inoltre il tenore di vita del singolo è sempre più condizionato dall’efficienza del sistema-paese, perché  la gestione del territorio, necessariamente di competenza pubblica, è diventato il compito principale della struttura produttiva ed è condizionata sia da una buona capacità regolatrice sia dalla disponibilità di tutti quei servizi quali sanità, istruzione, trasporti, parchi pubblici, sicurezza, garanzie sociali e quant’altro che, erogati in regime di monopolio naturale, sono di competenza pubblica e non gestibili dal privato attraverso il mercato.

Questa nuova realtà non solo evidenzia che la struttura pubblica, è l’unica determinante per l’equità sociale, ma pone i diritti dei lavoratori pubblici spesso in contrasto con quelli prioritari della collettività utente: la difesa dei lavoratori si traduce nella difesa di soggetti privilegiati e forti, contro utenti deboli. È spesso lo stesso individuo, fruitore di ampi diritti come lavoratore, che ne è privo come utente e paga decuplicati come utente i privilegi fruiti da lavoratore.

La difesa del lavoratore sul posto di lavoro ha inoltre scarse possibilità reali infatti: se l’azienda opera in regime di concorrenza, difendere un’occupazione non più necessaria significa mettere a rischio l’intera azienda; se invece opera in regime di monopolio si scarica sulla collettività il costo dell’inefficienza produttiva. L’unica soluzione reale sarebbe far crescere l’economia per riassorbire la disoccupazione tecnologica, ma è proprio quello che la classe politica non sa o non vuole fare.

Questa impotenza oggettiva vanifica le istanze sociali della sinistra e alimenta la fuga dalla realtà con dichiarazioni di principio politicamente corrette, ma impraticabili e dannose. Si accentua così la spaccatura della sinistra; da una parte la sinistra, dei duri e puri, che scelgono l’alternativa onirica di un mondo sperato raggiungibile però con logiche già condannate senza appello dalla storia; dall’altra i riformisti, oggettivamente privi di una strategia che possono seguire solo una logica di centro destra.

La sinistra senza strategia si avvia verso l’insignificanza, dando spazio alla destra e al suo pesante bagaglio culturale. Una crisi culturale abbinata a quella economica porta necessariamente alla notte della ragione che genera i mostri di una realtà che non vorremmo dover rivivere.  

Di Bruno Musso

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