Tokyo Ghost, prosegue la saga cyberpunk di Rick Remender e Sean Gordon Murphy

Magazine, 25/10/2017.

Quando un storia riesce ad intercettare il presente in modo tanto violento da costringere a guardarsi intorno con  nuova consapevolezza, il lettore deve arrendersi all’evidenza di trovarsi al cospetto di un’opera che occupa molto più dello spazio chiuso tra una copertina e l’altra.

La forza del primo volume di Tokyo Ghost (Ed Bao 136 pp, 14 eur) , letto qualche mese fa, era nella forza dell’idea di Rick Remender nel raccontare una distopia da social che affondava le unghie nel nostro quotidiano fatto di schermi fissati, notizie false spacciate e condivise alla forsennata ricerca di consenso sociale.

Al centro della scena Ted e Debbie, due cyber poliziotti che cercano nel reciproco amore e nella grande forza di volontà di Debbie gli elementi per costruirsi un futuro diverso a Tokyo, ultimo avamposto naturale in un mondo con un’anima in plexiglass. La chiusura del primo capitolo, scritto in modo eccellente e graficamente molto intenso, prometteva un epilogo altrettanto intenso.

Una promessa mantenuta. Tavole e colori di Sean Murphy e di Matt Holligsworth offrono al lettore un’esperienza di lettura pirotecnica, tanto da esondare quasi rispetto al formato scelto.

Ritmo, disegni colori e lo spessore che i personaggi  occupano fanno sì che l’attesa per il secondo capitolo sia stata premiata; un volume conclusivo capace di alzare ancora un po’ l’asticella per offrire ai lettori nuovi spunti, nuove metafore da indagare e una forza allegorica che irrompe, costringendo a leggere e rileggere i capitoli finali per spremerne ogni riferimento, ogni idea fino ad un epilogo che sa sorprendere anche grazie all’ultima citazione pop.

Tutto riprende qualche tempo dopo l’infausto epilogo del primo volume, nel quale si consumano i due dei tre atti dei quali la tragedia, in senso classico, è composta. Conosciamo i personaggi, speriamo e soffriamo con loro fino all’ultima tavola.

Tokyo è lontana, l’Arcadia è un pallido sogno, e l’azione torna a svilupparsi in California dove il regime media-cratico di Flak si mostra volgare, spietato e grottesco. Così come nel primo capitolo Remender non risparmia allegorie feroci e critica crudele che diventa satira di costume e politica. Flak è un videocrate capace di assoggettare la città di cui è patrone nonostante sia rozzo e al di sotto degli standard che lui stesso pretende dai sui commensali.

Il servilismo del media, della stampa che dovrebbe fare della ricerca e della diffusione della verità unica ragione di essere, è rappresentato senza alcun filtro, quasi che il quarto potere volesse farsi vanto dell’essersi assoggettato, sconfitto e prostituito in forma e contenuto.

Tra le tavole che colpiscono c’è una surreale. Un primo piano inequivocabile, che mostra senza dubbi il pensiero sui media venduti al potere, mentre è sullo sfondo che si consuma in modo feroce la critica dell’autore all’attuale dialettica politica.

Quel «dice ciò che pensa», inteso come merito, urlato dai cameramen che diventano grouopies alla fine di un monologo sfacciatamente falso e retorico, racconta molto del rapporto tra potere e consenso costruito su promesse vane appoggiate saldamente su ambizione personale.

Impossibile non vedere in questo una critica feroce al Trumpismo visto come patologia di massa. La sfacciata mediocrità intesa come valore aggiunto. Il mondo che emerge dal racconto di Remender è desolante.

Inevitabile che in un simile scenario emerga un villains amorale, sfacciatamente pazzo eppure sorridente, uno guascone psicopatico. Impossibile non rivedere in Davey il Joker immaginato e scritto da Alan Moore per il suo Killing Joke.

Personaggio folle, indubbio, apparentemente privo di scopo come un bambino che tortura le formiche, che si mostra invece lucido e con un piano definito in testa; un progetto che mette in piedi con metodica precisione. A contrastarlo ancora Ted, per quanto può, e soprattutto Debbie, la sua missione, le sue scelte, il suo coraggio.

Entrambi trasformati dopo quanto vissuto, e perso, a Tokyo. La ragazza idealista e innamorata incontrata nel primo capitolo ha ben chiara la sua missione e con altrettanta sicurezza ha accettato il prezzo dei propri peccati.

Ted continua ad essere un guscio dal quale emergono sofferenza, rimpianti e rassegnazione; lui è il primo attore nella farsa messa in scena da Davey. Inevitabile lo scontro. L’epilogo è ben cadenzato, si legge di corsa per poi tornare indietro, come se la prima lettura fosse solo l’occasione per prendere gli appunti da approfondire a partire dal secondo passaggio.

Un racconto crudo, capace di toccare nervi scoperti senza alcun sollievo e che si dimostra, probabilmente, assieme a The Private Eye di Vaughan, una delle migliori distopie nelle quali ci si possa imbattere; due ottimi racconti che, quando sollevi gli occhi dal libro, costringono a rivedere il proprio rapporto con i media fai-da-te e con il mondo attorno ad essi sta prendendo forma.

Un’esperienza narrativa intensa, una lettura cyber-punk che sa mantenere alta l’attenzione e diverte, e angoscia, fino alla tavola finale. Un videogioco nel quale immergersi è pericoloso, ma dal quale è impossibile sottrarsi. Per cominciare a giocare, premi start.

Di Francesco Cascione

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