La spaccatura della sinistra e la nuova realtà economico sociale

Wikipedia / Magnolia677

Magazine, 10/10/2017.

Dilaga il dibattito sulla spaccatura della sinistra e le caratteristiche esistenziali dei diversi protagonisti, ma pochi sembrano accorgersi che la spaccatura è molto più profonda e rappresenta la conseguenza inevitabile dell’incapacità della sinistra di adeguare il proprio comportamento alla mutata situazione politico/economica.

Le radici della nostra sinistra risalgono alla società borghese della seconda metà dell’800  dove una minoranza, il 3% della popolazione, deteneva il potere nonché le risorse economiche; era corretto e di sinistra difendere i diritti del proletariato, l’altro 97% e identificare il proletario con il lavoratore, perché i due ruoli erano praticamente equivalenti.

Questa tensione economico/sociale ha permesso, nella seconda metà del ‘900, la realizzazione  della democrazia e il raggiungimento di elevati livelli di redditi, diritti e libertà, riducendo anche le diseguaglianze sociali; si è così arrivati a superare la tradizionale divisione di classe fra  borghesia e proletariato.

La realtà economica è di conseguenza cambiata ed è cresciuta l’importanza della gestione del territorio, che ha reso strategica la funzione pubblica sia per il ruolo istituzionale che per la gestione di tutti quei servizi di sua competenza in quanto svolti in regime di monopolio naturale. Il benessere individuale sempre più risulta condizionato dalla vivibilità delle città, dai rapporti con la pubblica amministrazione, nonché da sanità, istruzione, trasporti pubblici, parchi e quant’altro necessario al vivere civile. Solo il funzionamento del pubblico può garantire la socialità e l’equità distributiva.

La nostra sinistra tradizionale, specie quella di origine sindacale, continua invece a difendere il soggetto debole, quello che un tempo era il proletariato, identificandolo con il lavoratore e trascura invece le conseguenze negative che lo stesso subisce in quanto utente di servizi pubblici. Così i diritti che il singolo ha come lavoratore divengono sproporzionati rispetto a quelli che fruisce come utente, mentre spesso sono proprio i diritti del lavoratore che vanificano quelli dell’utente.

Seguendo questa logica si smontano progressivamente il welfare, lo stato sociale e la lotta alle disuguaglianze, come si può rilevare dalle mille penalizzazioni che il singolo subisce per l’inefficienza pubblica e per i servizi non resi; a riprova basta ricordare che il segretario del principale sindacato italiano ha preso posizione a favore dei vigili di Roma, in quanto lavoratori, quando la notte di Capodanno si sono dati malati abbandonando i cittadini al loro destino. 

L’incapacità di adeguare la strategia della sinistra alla nuova realtà economico/sociale origina l’insanabile frattura: da una parte chi cerca, pur in presenza della crisi generale, di mantenere un minimo d’efficienza della macchina pubblica per garantire la vivibilità sociale; dall’altra chi, condizionato dal passato, difende il lavoratore sul posto di lavoro, non capendo che spesso vengono così tutelati pochi privilegiati, a scapito della collettività debole.  È evidente che questa strategia non può essere considerata di sinistra nonostante le dichiarazioni politicamente corrette.

Per superare la contraddizione è necessario che la sinistra identifichi una nuova strategia comune che sia idonea a perseguire l’obiettivo di ridurre le diseguaglianze sociali nell’attuale realtà economica e sia in grado di privilegiare le necessità della collettività debole spesso conflittuali rispetto a quelle dei lavoratori privilegiati; fino a quel momento risulteranno vincenti i populismi, che giustamente contestano il sistema, o la destra, meno penalizzata dalla divergenza fra dichiarazioni e prassi. 

Di Bruno Musso

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