Magazine, 21/09/2017.
Il mondo del cinema torna a far parlare di carcere, portandoci dietro le sbarre, per mostrarci il volto più duro delle prigioni americane.
Protagonista di La fratellanza, il nuovo film di Ric Roman Waugh, è Jacob Harlon, il tipico americano di successo: un bel lavoro come broker, una bella famiglia, una bella casa e dei begli amici. Almeno finché una sera, tornando a casa dopo una cena a coppie, Jacob ha un incidente in cui perde la vita il suo migliore amico. Trovato positivo all’alcol test, viene condannato a scontare, grazie al patteggiamento, poco meno di un anno di galera, insieme a criminali di prim’ordine.
Costretto a sopravvivere in un mondo violento e discriminatorio, Jacob impara presto che in carcere puoi diventare vittima o carnefice e la sua scelta si fa chiara non appena entra, un po' per caso e un po' per talento, in una delle più violente cerchie di carcerati: la Fratellanza Ariana. Da quel momento, tra pestaggi, traffico di droga e omicidi, Jacob compromette la propria fedina penale al punto di vedersi decuplicare la condanna.
Una volta uscito dal carcere, in libertà vigilata dopo 10 anni, Jacob non è -ovviamente- più lo stesso uomo di prima. Dimesso il suo aspetto da uomo in carriera, diventa a tutti gli effetti un “duro”, muscoloso, tatuato e baffuto, e con un’insaziabile sete di vendetta. Verso chi o cosa lo si scopre solo al termine del film, nel momento della sua -poco sorprendente- redenzione.
Un prison-movie, questo di Waugh, che punta più a far gioire gli amanti dei film di azione che a descrivere la psicologia che sta dietro all’assoluto imbruttimento dell’uomo. La stessa trasformazione di Jacob, da mesto padre di famiglia a numero due di una gang con tendenze nazi, è raccontata solo attraverso sporadici flashback, che non lasciano intravedere alcuna titubanza, nè pentimento.
Il messaggio, però, è chiaro: l’unico barlume di speranza, l’unico appiglio alla propria umanità per un uomo tanto corrotto, non sarà altro che il sangue. Non quello perso e nemmeno quello versato, ma quello condiviso.
Di Barbara Cosimo