I robot ci ruberanno il lavoro?

Magazine, 03/04/2017.

Mille paure affollano il nostro presente e fra esse sta prendendo piede anche quella del robot che, sostituendo il lavoro umano può far dilagare la disoccupazione. La storia si ripete e, non imparando dal passato, rifacciamo gli stessi errori; sottovalutiamo così i rischi drammatici che ci circondano mentre ci spaventiamo di ciò che non è un rischio ma un’opportunità.

Come ho più volte ripetuto, esiste un punto fermo in economia e cioè che al crescere della produttività, cioè del quantitativo producibile a parità d’occupazione, le alternative che si presentano sono due: cresce la produzione e allora aumenta il benessere collettivo; o la produzione rimane costante e cresce solo la disoccupazione. La fine dell’Ottocento è stata caratterizzato dalla disoccupazione e dalla povertà diffuse proprio perché era cresciuta la produttività e non la produzione; il movimento dei luddisti (oggi di nuovo attuale) teorizzava, in difesa dell’occupazione, la distruzione delle macchine che sostituivano il lavoro umano.

Come ora anche allora esisteva un “tappo”che impediva la crescita produttiva, ma non era economico bensì politico e nasceva dal potere e dai privilegi della borghesia. Quando dopo la guerra, sulle macerie delle città europee, questi privilegi sono progressivamente caduti la produzione ha ricominciato a crescere e l’investimento in macchine e tecnologia sono diventati l’elemento portante dell’evoluzione positiva che in meno di mezzo secolo ha aumentato di 10 volte (1000%) il reddito medio, riducendo anche di due terzi l’impegno lavorativo e garantendo un livello di diritti, libertà e benessere diffuso, mai raggiunto prima di allora.

Di conseguenza è facile capire che il lavoro non è un obiettivo ma solo una necessità, perché l’obiettivo è il tenore di vita che la struttura produttiva riesce a garantire; l’evoluzione tecnologica – trattore e/o robot – costituisce il positivo elemento portante di questo processo. Alla struttura pubblica spetta il compito di garantire la crescita della produzione (il Pil), nonché i servizi sociali, riducendo l’impegno lavorativo (con o senza il salario di cittadinanza) per una più equa distribuzione delle risorse. Questo è successo negli anni dal ’50 al ’90, durante i quali è stato possibile ottenere sanità e istruzione gratuita, nonché pensione e diritti del lavoro.

Con la fine del secolo l’evoluzione economico/sociale ha però imposto la progressiva crescita della mano pubblica passata dal 10% dell’occupazione (Europa anni ‘50) a oltre il 50%, ed a cui si sono delegate le scelte strategiche della complessa società moderna. Il meccanismo istituzionale esistente, pensato dall’Illuminismo francese a metà dell’700, non avendo gli strumenti tecnici per questo più ampio compito, è diventato nuovamente il “tappo” che impedisce la crescita. Fenomeno comune a tutte le democrazie avanzate, sia Usa che Ce, che dal ’99 al 2016 hanno fatto crescere il Pil del 40% (unica eccezione l’Italia che si ferma al 5%,, quando la crescita possibile e necessaria avrebbe dovuto essere in un lasso di tempo poco più lungo di ben 1.000 % (10 volte il Pil). Tale aumento, che si era verificato nel dopoguerra, grazie alla progressiva introduzione del motore in sostituzione della fatica dell’uomo, doveva ripetersi ora con il computer che sostituiva l’intelligenza umana.

Per combattere l’emergenza-disoccupazione prodotta dall’aumento di produttività a produzione costante, si sono invece identificate soluzioni-tampone peggiorative; l’esubero occupazionale è stato infatti coperto con cassa integrazione, pensionamenti anticipati e assunzione nel pubblico; così da una parte è cresciuta l’inefficienza pubblica, dall’altra si è vanificato l’aumento di produttività impedendo una generale riduzione dell’impegno lavorativo.

La situazione così cristallizzata porta inevitabilmente a un aumento di disoccupazione ad ogni aumento di produttività; ritornano così le vecchie logiche luddiste e si ipotizza di combattere il robot per difendere l’occupazione. Il problema occupazionale è drammatico e reale, ma deriva dall’incapacità della struttura pubblica di assolvere al proprio ruolo; non peggioriamo la realtà incolpando il robot che invece può contribuire a ridurre la povertà umana.

Di Bruno Musso

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