Dal caos al caleidoscopio con Irene Serini nella decanonizzazione di Warhol

Francesca Gazzolo
Teatro della Tosse Cerca sulla mappa

Genova, 01/11/2017.

Sprazzi di ossessioni e dipendenze. Frammenti di eccessi: «pop pop pop, lo champagne»; «ah ah ah ridono». E paura. Paura di morire affiancata a una smisurata passione per il denaro. Su una scrittura fatta di istantanee, brevi squarci slacciati, pronunciati da una voce dall'identità instabile, si aprono su attimi di vita dell'uomo Andy Warhol. È l'attrice Irene Serini a cavalcarli mentre anima ogni centimetro della scena. Neutro e camaleontico al contempo lo spazio (Emanuele Conte) si veste di luci, sintetiche proiezioni, soprattutto forme, scritte e colori (luci, video e suono Luca Serra). Testo e scena muovono da un potenziale cumulo caotico verso forme da caleidoscopio ad ogni scossa che l'interprete sa produrre. Serini gestisce parole-immagini e modella figure umane o solo parti significanti di queste, articolando il proprio corpo come fosse esso stesso oggetto di scena. Non ci sono pose né forzature nella voce, ma accenati toni che esprimono individualità altre di volta in volta evocate. Ed è semplicemente seducente la metamorfosi che porta Serini a divenire anche solo per un breve quadro Edie, «povera piccola bella ragazza ricca», "EdieSedgwick

In inquiete polaroid di vissuto si evocano stralci di ricordi monocromi «blue, orange, silver». Resti della Factory e di una vita spettacolarizzata, sotto cui non alberga altro - almeno così sottolinea il testo, insistente. Laura Sicignano, regista e autrice della drammaturgia insieme ad Alessandra Vannucci, attacca il concetto stesso di star system creato da Warhol. Sveste la celebrità, spoglia di fascino del mito e le tante icone da esso generate. Infine toglie gli occhiali da sole, strattona la parrucca e lascia il re nudo. Non ci sono le opere dell'artista, nessuna delle sue creazioni-icone, niente (o quasi) di visivo che le evochi, solo parole che qua e là ne ricordano alcune: Marilyn in varie soluzioni cromatiche, Mao e le lattine della Campbell's soup. Lo sguardo che ci è proposto è al contempo esterno e lontano da Warhol nel tempo e nella mentalità e, in rapidissimi scarti, morbosamente vicino a lui, come una voce assillante all'orecchio di un paziente psicotico.

Nella scrittura tutto tende a una serie di elenchi: cumuli di oggetti acquistati, opere collezionate, biglietti, scontrini, inviti e tutta la parafernalia raccolta all'interno delle famose Time capsules; e ancora elenchi di nomi celebri della personalissima claque di superstars abitanti della mitica silver Factory (dove tutto persino il telefono era color argento appunto): oltre a Edie, appaiono e scompaiono, in vortici di festini vibranti di champagne e anfetamine, Mario Montez, Ultra Violet, Nico, Velvet Underground, Gerard Malanga, Brigid Berlin e Valerie Solanas. Ognuno immortalato in una posa estrema, sempre sull'orlo di un precipitare, di un affacciarsi alla propria dissoluzione e rovina. Alla ricerca di quei soli 15 minuti di celebrità che secondo Warhol sono tutto quello a cui si può aspirare.

Il ritratto dell'icona pop per eccellenza è inclemente. Voci fuori campo richiamano i pensieri di coloro che si scagliarono contro l'arte di Warhol, negandone ogni spessore, ogni senso, ogni tecnica e ovviamente annullando la possibilità stessa che si potesse definire lui un artista. E mentre l'attrice è spinta in una corsa vorticosa intorno agli elementi scenici collocati a centro palco, arriva l'ennesima conferma al vuoto, a quel NIENTE che campeggia in proiezioni a lettere maiuscole sul fondo scena. Sarà solo frugando tra le cianfrusaglie che riempiono le Time capsules che si ripresenterà in scena un residuo di umanità, un frammento di vera e minuta identità non commercializzabile per Warhol. Sarà a partire da una di queste scatole di cartone - inservibile e povera "dote" - tutte rigorosamente numerate, che uscirà un altro prezioso esito interpretativo della caldamente impetuosa Serini ora pressochè immobile nei panni della madre di Warhol, mum.

Dopo che la scena non è più. Dopo che i parallelepipedi, che creavano un tronesco centro, sono stati divelti e resi lapidi in cui ognuna delle superstars di Warhol giace per lo più da lui dimenticate (come sottolinea moraleggiante il testo); dopo che si è spento ogni guizzo di mondanità, un singolo parallelepipedo diventa teatro nel teatro per una narrazione di tutt'altro genere. Con una singola fonte di luce calda, qui a tessere il filo di una biografia intimista è la madre di Warhol, Júlia Justína Zavacká poi Julia Warhola (versione americanizzata del cognome del marito Varkhola). Per lei, Serini si fa immagine fissa, per un confortante ritratto di colei che decise di cullare il figlio e accudirlo cucinando e tenendo per lui la casa. L'arco scenico è ridotto a una cornice di poco più di un metro per un metro, Serini incastonata dentro è madre-madonna in un quadro. Non si sfugge alla spettacolarizzazione, si resta conficcati nell'idea dello schermo, eppure qui una parlata semplice e imperfetta, di chi parla una lingua non sua, calata in una linearità del racconto - impensabile fino a poco prima - ci chiede di abbandonare ogni eccesso e ci fa risalire fino alla nascita stessa «del mio Anek, Andrew, Andy».

Ce ne sono 612 e sono conservate al Warhol Museum di Pittsburg le Time capsules. Due anni fa (primavera 2015), al MAC di Marsiglia solo otto di queste erano lì esposte. Per la meticolosa selezione i curatori avevano utilizzato un particolarissimo filtro: il concerto-tributo a Warhol che Lou Reed e John Cale (Velvet Underground) avevano organizzato nel 1989. Da lì il concept album Songs for Drella che nelle sale del MAC accompagnava i visitatori  tra quei frammenti aiutandoli a disambiguarne i nessi e a riconoscervi un'intera esistenza. In una serie di malinconiche ma schiette ballate, Reed&Cale riferiscono un'altra storia, tracciano un altro profilo di Warhol e del suo mondo, senz'altro fatto di luccicanti cromìe, lussuose brame e sprizzanti occasioni ma anche di una serie di inquiete-umanità che tra gli anni '60 e '70 alla Factory non lasciarono niente di intentato in quanto a sperimentazione artistica. Certo ci sono facili scambi, opportunistici baratti, serate buttate in un tempo accelerato e vissuto come attimo da non mancare, consumato. Bruciano focolai fatti di talento estetismo esagerazioni e persino ridicolizzanti dismisure, dove Warhol&Co sguazzano tra i brandelli di  preconcetti, canoni, codici fatti a pezzi e che - chissà, magari solo per caso o per gioco - li resero però capaci di ridefinire per l'ennessima volta l'idea stessa di arte.    

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@ Teatro della Tosse
31 ottobre - 5 novembre 2017

Andy Warhol Superstar

ideazione e regia Laura Sicignano
testo di Laura Sicig
cnano e Alessandra Vannucci
scene Emanuele Conte
con Irene Serini
luci video e suono di Luca Serra
costumi di Daniela De Blasio
coproduzione Teatro della Tosse – Fondazione Luzzati / Teatro Cargo
con il patrocinio del console generale degli Stati Uniti d’America

Di Laura Santini

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