Stilemi da Beckett, Churchill, Pinter in Saul di Ortoleva e Favaro

Teatro della Tosse
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Genova, 08/02/2020.

In Florida c'è un grattacielo fatto a forma di chitarra. Ospita l'Hard Rock hotel.

Ma perché la recensione di Saul di Giovanni Ortoleva e Riccardo Favaro (Teatro della Tosse, 4-8 febbraio 2020), dovrebbe cominciare così? L'associazione è piuttosto aleatoria, lo ammetto. In parte casuale, in parte incerta, in parte rischiosa. Non del tutto, però, se si aggiungono un paio di notizie: l'edificio a forma di chitarra è frutto del lavoro della tribù Indiana dei Seminole, nativi americani che, per secoli, si sono rifiutati di rispettare il bando dai territori della Florida di cui erano leggitimi abitanti, trovando strategemmi per nascondersi ed evitare di essere deportati in Oklahoma come altre tribù (Removal Act 1830). Il Guardian Weekly  (31 gennaio 2020), che racconta questa storia, definisce l'edificio un ennesimo atto di sfida da parte di questa tribù che non si è mai lasciata davvero conquistare. Con una fortuna economica, costruita su casinò e gioco d'azzardo, la tribù all'acquisto di Hard Rock International (2006) e da lì in avanti ad un'ascesa sul mercato globale per profitti superiori a 5 miliardi l'anno.

Di cosa stiamo parlando allora? Di potere. Conflitti. Cadute. Sconfitte. Nuove leadership. Saul parla di un re che non sapeva governare, ma il re per Ortoleva e Favaro è una rockstar sprofondata nella poltrona di un albergo di lusso. In preda a uno stato catatonico depressivo, in preda a un narcisismo che l'ha reso cieco e sordo al mondo e realmente coinvolto solo nel proprio ego. Servito da un figlio a cui non riconosce alcuna qualità se non appunto quella di schiavo dei suoi capricci, questo è un re tutto contemporaneo, un re vittima di un successo puramente commerciale che finisce per opprimere chi lo raggiunge nella mercificazione di ogni dettaglio, più o meno privato, di cui i fans riescono ad appropriarsi. Un'incoronazione che è di per sé già un passo dentro il suo opposto, la caduta, l'impossibilità di commettere errori, la rovina. 

Tutto parte dalla volontà di portare in scena il Saul di André Gide, primo testo teatrale a tematica omessuale del teatro contemporaneo: scritto nel 1895, pubblicato nel 1906 e portato in scena solo nel 1922. «Quando mi sono messo a leggerlo - racconta Ortoleva - sono entrato in crisi. Lo trovavo un testo vecchio. Eppure mi piaceva. Mi chiusi in camera mia. E improvvisamente un giorno mi resi conto che quel testo parlava di me, di me e quel testo, della mia incapacità. Decisi che l'avrei riscritto». 

Dividendosi i compiti, la scrittura a quattro mani ha visto Ortoleva e Favaro mettere mano, e profondamente, al testo di Gide trattenendo la storia di un amore omosessuale esplicito tra il re Saul e David e quella della passione tra Jonah figlio del re e David. La traslazione re>rockstar è nata invece per libera associazione e per necessità: «Chi mai potrebbe appassionarsi alle vicende sfortunate di un drammaturgo in crisi. Tutto diverso se parliamo di musica, dove ci sono veri e propri re». Per un segno del destino mentre questo lavoro prendeva forma, racconta ancora Ortoleva, una star della scena musicale faceva il suo ritorno presentando un nuovo album, era Joshua Michael Tillman in arte Father John Misty con God's favourite customer. «Era un segno inequivocabile, il nostro Saul era una rockstar»

Dal testo alla scena a traghettare il lavoro è sempre Ortoleva con una regia che non può in alcun modo passare in secondo piano al testo certo denso, stratificato, capace di tenere al suo interno il sapore epico della leggenda e quello tutto effimero di una contemporaneità accelerata, inquieta, insoddisfatta, spesso vuota che appunto attinge da tanta drammaturgia anglosassone.

La pièce si articola in brevi, a volte brevissimi quadri  - specie nel primo atto. L'apertura arriva come una citazione da Fin de Parti  (1957) di Samuel Beckett: dove un uomo seduto ha accanto a se un altro uomo, in piedi, pronto a servirlo e ad assecondare ogni sua richiesta. Il dialogo tra i due è vago proprio come quello di Vladimir e Estragon in En attendant Godot. Più avanti - e più di una volta ma con ritmi diversi per effetti e semantiche non identiche - spunta quella che appare come una seconda citazione, è Caryl Churchill e il suo Blue Heart (1997): una stessa scena viene interpretata una prima volta, quindi interrotta e re-intepretata di nuovo; oppure ripetuta ma a velocità crescente fino a deprivare la scena e le sue battute progressivamente di contenuti e elementi nell'atto di ripeterla sempre più in fretta. Anche Harold Pinter fa capolino con quei suoi dialoghi serrati, tesi in equilibrio sottile come articolati sul filo di una lama tesa a ferire nel profondo uno degli interlocutori, più spesso entrambi - da The birthday party (1957) a Betrayal (1978). A altri spunti emergono anche da altri più recenti talenti della scrittura per il teatro, tra cui Martin Crimp e Mark Ravenhill

Di un re che non riusciva a governare e che nell'incontro con il giovane David trova l'amore e una nuova occasione di farcela, si dice certo. Di Jonah e di David che si innamorano l'uno dell'altro e, come succede tra pari, si amano gentilmente e dolcemente ascoltandosi nelle reciproche forze e debolezze, anche si dice. Così come si dice, senza interpretare, sia appunto simulando una narrazione letta da una pagina scritta, sia portando una battuta all'assolo nonostante la sua identità dialogica, si fa dizione in scena mentre ogni forma narrativa viene tentata e presto disarticolata.

Alessandro Bandini (David), Marco Cacciola (Saul) e Federico Gariglio (Jonah) interpreti sempre intensi, concentrati, presenti e rispettosi del personaggio quanto attenti e mutevoli per assecondare la fitta partitura a cui sono chiamati. Stanno al gioco che li porta a percorre come funanboli la sottile linea che separa l'interprete dal proprio personaggio, l'interprete del qui ed ora dalla scena, l'interprete dalla sfera più alta della composizione nella sua unità. 

Mentre stilemi e codici della drammaturgia contemporanea si rendono riconoscibili e leggibili sono al contempo mattoncini che Ortoleva personalizza in una struttura spettacolare che evoca altre drammaturgie sceniche di maestri del presente, per esempio Antonio Latella per cromaticità, volontà di destrutturare la testualità e la parola detta; oppure la dinamicità, anche vocale, e quell'abilità di giocare al gioco del teatro e del teatro nel teatro di Marco Martinelli.

C'è una maturità sorprendente, e credo vada detto esplicitamente, in questo spettacolo giovane - seconda produzione di Ortoleva come regista (e età media del cast) - e una meticolosa quanto passionaria attenzione ad ogni minimo dettaglio - suoni e distorsioni sonore e vocali, musiche, scenografia, componente video, coreografie. Il fondoscena è un tessuto che propone un damascato verde, dove però i classici temi floreali sono finiti sotto una lente d'ingrandimento per parlare anch'essi di una distorsione nella dimora del re, distorsione che attacca il suo lusso sfrenato, aggredisce il suo contorno che sembra ma non è  proprio come lui in quanto re, non sa essere re. Da non perdere.

@Teatro della Tosse
4-8 febbraio 2020

Saul
liberamente tratto da André Gide
regia Giovanni Ortoleva
drammaturgia Riccardo Favaro, Giovanni Ortoleva
con Alessandro Bandini, Marco Cacciola,  Federico Gariglio
scenografia e Costumi Marta Solari
movimenti coreografici Gianmaria Borzillo
musiche originali Pietro Guarracino con Ettore Biagi, Agnese Banti e Lorenzo Ruggeri
disegno luci Davide Bellavia
decoratrici Francesca Antolini, Maria Giulia Rossi, Martina Galbiati
produzione Fondazione Luzzati Teatro della Tosse,  Arca Azzurra Produzioni , Teatro i
in collaborazione con AMAT e Comune di Ascoli Piceno nell’ambito di Marche in Vita. Lo spettacolo dal vivo per la rinascita dal sisma progetto di MiBAC e Regione Marche coordinato da Consorzio Marche Spettacolo

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