Monica Gattini Bernabò: metodo Milano, la capacità di costruire il futuro oggi

Angelica Pansa

Milano, 13/01/2020.

È un freddo ma terso venerdì d'inverno e Monica Gattini Bernabò ci accoglie nel suo ufficio in Alzaia Naviglio Grande di fianco al pittoresco vicolo dei Lavandai. Occhi azzurro ghiaccio, sorriso smagliante e parlantina inarrestabile: Monica è una delle figure di riferimento della vita culturale milanese a cui partecipa a diverso titolo da più di 35 anni.

Nome noto nel mondo del teatro, ha iniziato da giovanissima al Teatro del Buratto, per poi spostarsi al Teatro Verdi fino ad arrivare alla direzione del Teatro Litta. Ha fatto parte di comitati d’importanti fondazioni, come Fondazione Cariplo, per approdare poi nel 2012 a Fondazione Milano, di cui oggi è direttore generale. Noi di mentelocale.it l’abbiamo incontrata per parlare di Milano, cultura e futuro.

Monica, puoi raccontarci cos’è Fondazione Milano?

«Fondazione Milano è un ente fondato e sostenuto dal Comune di Milano che opera nel campo dell'alta formazione. La Fondazione, diventata poi autonoma nel 2000, si occupa di formare giovani talenti attraverso la gestione in proprio di quattro scuole civiche di alta formazione artistica e culturale: la scuola di musica Claudio Abbado, la scuola di cinema Luchino Visconti, la scuola di teatro Paolo Grassi, e la scuola per traduttori e interpreti Altiero Spinelli. Fondazione Milano è un piccolo politecnico delle arti, possiamo dire, che comprende tutte le discipline artistiche e di spettacolo. Per questo motivo io lo reputo un luogo privilegiato da cui guardare le trasformazioni culturali della realtà milanese».

E com’è cambiato il mondo culturale milanese durante il tuo percorso professionale? 

«Si è finalmente capito che la cultura è un mercato che dà lavoro e qualità della vita. La cultura è un lavoro: con la cultura si mangia e si dà da mangiare. Oltre a questo la cultura è uno degli asset su cui investire perché crea condivisione e tenuta sociale. Infatti, nelle nostre città, dove non ci sono grandi aziende produttrici ma dove ci stiamo focalizzando sempre di più sulle soft skills, se esiste un tessuto culturale fiorente esistono molto spesso forti dinamiche di condivisione e vita sociale. A mio parere, la qualità della vita si misura in tante cose, ma sicuramente la cultura è uno degli asset forti, soprattutto nel nostro paese dove quest’ultima è spina dorsale e fa parte del nostro Dna; e per cultura intendo un patrimonio di ciò che noi dobbiamo essere capaci di re-inventare. Non esiste cultura della tutela se non esiste una cultura dell’utilizzo della fruizione della condivisione». 

Quali caratteristiche fanno di Milano una città culturalmente vivace? 

«Milano ha capito che la cultura è un mondo a tutto tondo che va dal management alle risorse umane, fino all’organizzazione di eventi e alla promozione al pubblico. Milano è citta all’avanguardia che ha davvero saputo capire e investire su questo facendone il suo punto di rinascita. Inoltre, sta emergendo sempre di più anche la volontà di rinascita dal basso attraverso progetti non solo top-down ma anche bottom-up, ovvero con lavori che partono dai quartieri e dalle persone. Per non parlare poi dell’internazionalizzazione di cui è stata capace la citta negli ultimi anni. Milano ha fatto tesoro di un’idea di cultura sempre aperta, pronta all’innovazione e capace di costruire di capitale umano». 

Ed è questo che rende Milano unica?

«A mio parere si: la capacità di saper scommettere e saper fare rete è un’altra cosa che ho visto cambiare nel mondo della cultura. In più in questi anni si è sempre più sviluppata tra gli enti la capacità di fare rete e scegliere obbiettivi comuni su cui combattere, grazie anche alla abilità dell’ente pubblico - specialmente l’amministrazione comunale - di fare regia chiamando diversi soggetti alla partecipazione a progetti condivisi. Allo stesso tempo però, non basta solo un buon sistema di regia pubblica. Quest’ultima è necessaria, certo, ma da sola non sufficiente: ci vogliono anche le risorse economiche per rendere il capitale culturale. E qui entra in gioco la capacita di scommettere». 

Grazie a questa rete di cui parli, fatta di obbiettivi comuni, scommesse e propositività, è possibile parlare di modello Milano

«Secondo me parlare di modello non è propriamente corretto. Prendendo in prestito le parole di Ferruccio Resta, rettore del Politecnico di Milano, in una sua recente intervista al Corriere della Sera, che al posto di modello parla di metodo, ovvero qualcosa che possiamo capitalizzare, riproporre e riprodurre. Riferendosi al metodo Milano, Resta parlava di una virtuosa competizione all’interno di quest’ultimo, ma collaborativa con obbiettivi comuni; proprio la rete di cui parlavo prima. Ad oggi le istituzioni sono tutte positivamente inserite all’interno di questa competizione collaborativa verso un obbiettivo di crescita comune. Come ho detto all’inizio a Milano c’è stato un cambiamento radicale da questo punto di vista. In più, a Milano c’è un dialogo pubblico-privato molto forte che facilita questo metodo e crea un’operazione importante e di visione;in tutti i campi, non soltanto nella formazione e nella cultura». 

Questo metodo è riproducibile in altre citta e realtà, anche più piccole? 

«È riproducibile a partire dalla consapevolezza della politica che sappia che investire in questo settore è un investimento che torna. Non sto parlando solo in termini economici: bisogna investire come energia di pensiero e di visione. A fianco poi arrivano i numeri ma deve esserci prima questa consapevolezza. Inoltre, un’altra cosa che caratterizza Milano è la visione del futuro: non domandiamoci domani ma fra cinque, dieci anni la nostra città dove vuole essere. Viviamo una realtà frenetica, fatte di sfide sociali epocali e che corre più veloce delle persone. La sfida, quindi, al di lá dello stare nei tempi e di essere efficienti, si basa anche su quello che noi ci immaginiamo. Il futuro che cos’è? È un’ipotesi? No, il futuro è già oggi perché se tu oggi non immagini qualcosa e non ti adoperi a renderla reale, non potrai mai realizzarla in futuro. Le altre città, ma anche Milano, devono scommettere di più su questo».  

È stato detto che Milano non restituisce nulla al paese: cosa ne pensi di questa affermazione? 

«Sono in disaccordo su questo: Milano restituisce eccome, sia al suo territorio che al paese. Allo stesso tempo un rischio c'è, ed è quello che Milano si stacchi. Prima era modello, oggi è metodo. È chiaro però che, se non si riesce, a livello di sistema paese, a far si che tutto il resto cresca - con questo o con altri metodi - allora si rischia che il gap fra Milano e altri luoghi si acuisca e questo diventa un problema, anche e soprattutto per Milano. Ad esempio, se continua l’emorragia di certe università per venire negli atenei milanesi è chiaro che diventa una situazione insostenibile. Quindi, non è vero che Milano non restituisce, è vero però che in questo momento è pilota e sta crescendo più di altre citta. Ma pilota deve rimanere per tenere dietro un equipaggio e non viaggiare mai da sola».  

Parlando di futuro: come vedi la Milano nei prossimi anni? 

«Io ho sempre visto il bicchiere mezzo pieno: è alto, è bello ed è internazionale. Sette anni fa, quando uscivi da qualsiasi casa o ufficio non sentivi parlare in tutte queste lingue del mondo. Questo non deve essere un abbaglio però: sappiamo che in centro città le cose sono diverse rispetto ad altri quartieri. Allo stesso tempo è bellissimo vedere Milano piena di giovani che hanno saputo rinnovare zone in precedenza poco considerate. Oggi l’amministrazione si sta impegnando a rivalutare zone più periferiche della citta e la loro offerta culturale. Ci sono cose belle e potenti e questo intreccio è vitalissimo».

Di Angelica Pansa

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