Motus Mdlsx, tra identità fluida e impegno politico

Nada Zgank
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Sabato 6 maggio, ore 21.30, al Teatro della Tosse (sala Aldo Trionfo), in scena  lo spettacolo dei MotusMDLSX, con Silvia Calderoni alla regia, Enrico Casagrande e Daniela Nicolò; drammaturgia Daniela Nicolò e Silvia Calderoni, suoni Enrico Casagrande, in collaborazione con Paolo Panella e Damiano Bagli, luci e video Alessio Spirli.

Genova, 05/05/2017.

«Come Motus, da sempre lavoriamo su materiali documentari raccolti da noi. Questa volta abbiamo deciso di non farlo, di spostarci sul post-documentario. Dopo dieci anni di lavoro con Silvia Calderoni, non ci sembrava interessante fare uno spettacolo banalmente autobiografico sulla sua identità», afferma Daniela Nicolò, fondatrice e regista (insieme a Enrico Casagrande) della compagnia Motus, che con Calderoni firma la drammaturgia di MDLSX. Dopo il suo debutto a Santarcangelo nel 2015, la produzione è ancora richiestissima e impegnata in una tournée mondiale. Sabato 6 maggio fa tappa anche a Genova, in apertura del Life festival, in scena al Teatro della Tosse (ore 21.30).

Le fonti di questo spettacolo, che riprende il titolo del romanzo Middlesex dello scrittore americano Jeffrey Eugenides (Pulitzer 2003), sono molteplici, e confluiscono l'una nell'altra in una dimensione fluida del discorso proprio come la questione di genere o meglio di identità che il lavoro artistico intende affrontare: c'è l'identità post-nazionalista di cui scriveva Rosi Braidotti in On Becoming Europeans; ci sono brandelli autobiografici in formati video caserecci riadattati; evocazioni letterarie su quel fertile inganno che è la autobiografia di finzione, riflessioni filosofico-politiche di Judith Butler, passaggi di culto tratti da A cyborg Manifesto di Donna Haraway e quelli più taglienti di un altro pensatore che non fa sconti: Paul B. Preciado, dal suo Manifesto Contra-sexual, «c'è anche Pasolini, con uno scritto degli anni '50 Il pesciolino, apre alla poeticità e altri cut-up dal caleidoscopico universo dei Manifesti Queer. Tutto comunque sia contribuisce all'aspetto di verità», conferma Daniela Nicolò

Quale ruolo resta dunque al romanzo? E in quale veste vanno in scena le varie fonti? «Dall'epopea di Eugenides abbiamo selezionato solo le parti di Calliope adolescente. Abbiamo colto la figura di questa ragazzina che scopre la sua doppia sessualità e che rifiuta l'operazione intraprendendo così un viaggio. La cosa interessante è che chi non conosce il romanzo, crede che questa sia proprio la storia di Silvia. Anche se non la è. Ben presto altri testi si sono affacciati attorno all'argomento. Insieme a Silvia abbiamo sperimentato attorno a una serie di estratti e frammenti che allargavano la riflessione sull'identità, indagando il rapporto io-altro, o come in Foucault la mostruosità. I due manifesti di Haraway e Preciado sono invece interventi letti, che rappresentano delle rotture della dimensione narrativa dello spettacolo. Di Preciado abbiamo raccolto anche un articolo piuttosto duro, all'epoca appena uscito: Noi diciamo rivoluzione. Uno stralcio tratto da una profonda riflessione di Butler ci porta poi al confronto con la domanda: Cosa ci tiene insieme quando diciamo noi». Dunque la dimensione dell'identità si allarga a macchia d'olio per abbracciare anche quella sociale? Chi dice noi? «Noi gay, noi donne, noi omosessuali. È un discorso filosofico sull'idea stessa, controversa e criticamente affrontata, dell'identificarsi rispetto a categorie che finiscono per incasellare e costringere invece che liberare». 

MDLSX apre con l'attrice che dice: «Io non voglio essere né donna né uomo - prosegue Daniela Nicolò - ecco, si tratta proprio di questo, di andare contro delle caselle pre-confezionate, che per quanto tese a riconoscere, limitano. E allora si sceglie un'identità fluida. In questo senso l'immagine di Calliope, che si scopre intersessuale, è perfetta perché permette di proporre anche l'idea della normallizzazione, ci mette di frone a una ragazzina e alla sua necessità di decidere se affrontare i vari interventi ormonali e chirurgici che le propongono o di rifiutarli».

A più riprese Daniela Nicolò parla di attenzione e preoccupazione per un argomento vasto e sfuggente che solleccitava continue altre letture, ma soprattutto essendo delicato richiedeva cura, rispetto, attenzione. La composizione ha cominciato a prendere forma «quando siamo stati in sala prove, Silvia ha cominciato a leggere e da lì abbiamo fatto un secondo montaggio, questa volta non più in base al tema ma piuttosto adattato al ritmo. Tutto le sollecitazioni testuali si sono molto asciugate e accordate con una serie di varie selezioni musicali. Alla fine abbiamo individuato 22/23 brani, quelli più significativi per via dei testi o perché legati agli anni '90 dunque all'adolescenza di Silvia. Anche se non c'è un rispetto stretto sull'epoca perché ci sono anche gli Smiths e i Talking Heads che appartengono anche all'adolescenza mia e di Enrico (Casagrande, ndr)».

Dunque da una parte la narrazione autobiografica è del tutto fittizia, inventata tramite un collage molto ampio, ma allo stesso tempo viene in parte recuperata in piccoli sottili rimandi e materiali, giusto? «Proprio così, si nega e si afferma. La parte realmente biografica di Silvia è rimandata alla parte video, in una pluralità di clip tutti autoprodotti in parte da familiari in parte da amici. Si alternano immagini di repertorio alle immagini live che con una telecamera da un cellulare Silvia lancia sullo schermo, mentre lei resta sempre di schiena. Come se si affacciasse su un grande specchio. Si crea un grande equivoco,  a tratti le immagini coincidono con parole e narrazione in altri momenti c'è uno sfasamento: Sono nata nel 1960 in una Detroit priva di smog..., dice a un certo punto ripercorrendo le parole di Calliope e si crea un meccanismo di totale immedesimazione nonostante i video non rappresentino l'America. Qui si innesca un altro livello sull'auto-narrazione e sullo storytelling tanto di moda ora e utilizzato per vari scopi. Eppure, c'è una grande credibilità di fondo che viene trasmessa e un altrettanto grande impegno emotivo da parte di Silvia che crea una perfetta coincidenza empatica con il pubblico. La credibilità di Silvia va oltre il suo essere attrice, si esprime attraverso il suo corpo e la sua identità, per cui riesce a portare le persone all'interno di questo viaggio anche politico-filosofico, facendo arrivare anche le parole più taglienti in modo mai retorico. Lavorando con le spalle quasi sempre al pubblico, si evita la dimensione didattico-educativa, si rende il tutto molto più intimo cancellando l'aspetto dichiaratorio».

L'aspetto della delicatezza, del rispetto verso un argomento tanto sensibile evidentemente passa anche attraverso le scelte di Silvia Calderoni che come artista, ma anche nella sua individualità più intima si è confrontata con materiali realmente autobiografici e su scelte di rappresentazione del corpo nudo in scena: «Anche rispetto ad altri lavori, questo è stato davvero fluido e estremamente collaborativo. Le uniche remore erano sui filmati si sé stessa, su quelli in cui comparivano il padre, la madre, o gli amici dell'infanzia. Qui si presentava anche un carico emotivo molto forte, specie alla prima visione, però tutto è stato deciso con Silvia, lei ha scelto cosa era troppo privato e cosa no. Non trattandosi di un puro reading, nonostante l'abbondanza delle fonti, c'è anche azione in scena. Anche qui, è lei che ha lavorato sul suo corpo e sulla sua nudità o proposto alcune pose. Questo è il nostro modo di lavorare, è previsto fino in fondo un lavoro fatto di scelte condivise».

La dimensione sonora e musicale è anche riconducibile, almeno dal punto di vista dello spettatore tutta all'attrice: «I 23 brani, costituiscono proprio una playlist, che Silvia gestisce anche a livello di volumi, anche se poi c'è una regia molto impegnativa. Per esempio rispetto al suono, c'è un intervento di distorsioni ed effetti live che cura Enrico, così come succede per le immagini. Anche su questo aspetto c'è una grande aderenza visto che Silvia oltre a essere attrice è anche un'affermata dj, identità che ha anche veicolato la scelta rispetto alla scena: un semplice tavolo».

Identità dunque piuttosto che solo identità di genere. «Tutto il lavoro è contro il binarismo occidentale M/F. Ci sono paesi, come l'Australia, ma anche la Germania, che hanno introdotto sui moduli burocratici da compilare la lettera X oltre a M/F. Spesso è stato recepito come un vero e proprio manifesto per la comunità LGBTQI e ci sono teatri dove è arrivato proprio per questa ragione, ma questo lavoro non si rivolge unicamente a quella comunità. È aperto e molto inclusivo. Tant'è vero che anche persone lontane da queste tematiche, penso a pubblici di persone più anziane che abbiamo incontrato nella nostra tournée, l'hanno apprezzato lo stesso moltissimo perché c'è anche una componente informativa sull'intersessualità, con una serie di informazioni scientifiche, che consente di affrontare un tema poco discusso e avvicinare anche chi non ha mai dedicato alcuna attenzione alla questione».

Riflessione, introspezione, testimonianza, confessione. Eppure, ci tiene a sottolineare Daniela Nicolò, c'è «uno slancio positivo nel lavoro, sull'essere orgogliosi di se stessi. Un invito a non nascondersi. Insomma, non si ripiega su se stesso».

Taiwan, Canada, Brasile e il prossimo autunno tutto l'est europeo. Tante le tappe anche in Italia «sempre fuori dai teatri ex-Stabili». In tantissimi festival, «in Spagna premiato dalla critica». Repliche anche a Mosca «per una sola sera, però, sperando con tutto il cuore di evitare la censura, che è una cosa parecchio seria lì. Quello è stato un appuntamento politico, parte fondante del lavoro che è sulla libertà». In scena anche a New York, «dove è venuta tutta la comunità Queer». In generale quali risposte da un pubblico tanto vasto e diverso? «Tutti ci hanno ringraziato per l'aspetto di inclusione. A Taiwan c'erano degli spettatori cinesi che ci hanno detto che questo lavoro in Cina non può andare. In Asia per noi è stata la prima volta è stato bello. E tutto questo consenso ci fa anche un po' paura: stiamo cominciando a dire di no, perché facciamo fatica a includere altre date in calendario e per Silvia poi non è certo uno spettacolo facile. Non ci sono mai state rimostranze o manifestazioni di disappunto. Certo, ci sono state risposte differenti: a New York e in Canada il pubblico è molto partecipativo, ride molto di più su certe scene in cui il pubblico italiano, per esempio, resta in un silenzio totale. Però poi ci è successo lo stesso anche a Bari. In Germania, in un paese della Bavaria, tutto si è svolto in un grandissimo silenzio, però poi alla fine ci hanno dimostrato grande calore».

Siete una compagnia indipendente, autonoma e slacciata dai vari programmi di finanziamento e supporto, come è riuscita questa straordinaria richiesta dai palcoscenici di tutto il mondo. «Il lavoro ha avuto il sostegno solo di Santarcangelo 2015 Festival Internazionale del Teatro in Piazza, de L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino presso cui abbiamo fatto le prove non avendo un teatro, e ha sfruttato un'altra residenza a La Villette – Résidence d’artistes 2015 Parigi. Noi restiamo fuori dai mosaici del teatro italiano». Scelta o necessità? «È stata una condizione inizialmente, ma poi è diventata una scelta. Avremmo potuto fermarci con un teatro, fermarci con un gruppo, ma abbiamo continuato a credere nella nostra scelta e nella libertà che  questo ci permette, specie rispetto a cosa e come produrre». Tornando alle dimensioni produttive e alla tourné mondiale. «Il lavoro è nato come una piccolissima produzione. Ha debuttato in una sala piccolissima. Poi ci siamo ritrovati a farlo in teatri molto grandi da 5/600 persone. Regge. Fare tanta tournée permette di crescere. A proposito delle tappe in giro per il mondo, in parte è grazie al debutto a Santarcangelo, dove c'erano molti operatori europei, che ci hanno invitati subito, per esempio, a Berlino e poi in altri posti a catena. Molto è stato fatto all'interno dall'interno della compagnia, con le nostre forze per proporre la produzione anche in posti con cui non avevamo mai avuto contatti. New York ha rappresentato un altro lancio perché siamo usciti sul New York times e da lì sono arrivati gli inviti anche da altri paesi del mondo. Non era mai successo di avere una eco così ampia. Noi non abbiamo alle spalle nessun tipo di organizzazione, ma forse quando un lavoro comunica e il tema, come questo, è di largo interesse, c'è molta sete di teatro che parli del contemporaneo e affronti la realtà. Ci siamo presi un rischio grosso».

Perché? In fondo nessuno dei vostri lavori si allinea con un particolare metodo o linguaggio. «Credo sia fondamentale rischiare con un'opera artistica, credo ci debba essere sempre un margine di scandalo. A volte può essere un fallimento, ma sempre meglio che adagiarsi sul già fatto. Parlo di rischio in questo caso perché è sempre difficile non ricadere nel glamour, nella dimensione estetica, o in un andare a fondo autoreferenziale. Farsi delle domande anche toccando le categorie del fare artistico è un rischio. Qui poi c'è un lavoro sul corpo estremo. La produzione però non è categorizzabile quindi per esempio siamo stati invitati a un festival di danza seppure dal punto di vista formale non si possa parlare di spettacolo di danza. Non sempre dunque è facile proporsi nei teatri. E dico rischio, perché più che altre volte sono stati moltissimi i dubbi nel corso del lavoro: volevamo comunicare senza essere pedanti, volevamo mantenere l'ambiguità e l'apertura della poesia, ma anche essere capaci di essere duri e politici. È stato un continuo bilanciamento tra forze. Io e Enrico sono 25 anni che lavoriamo insieme, con Silvia dieci, questo è un lavoro che si porta dietro una storia di fiducia tra noi».

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