Silvio Orlando e la trilogia di Starnone. L'intervista

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Genova, 09/05/2018.

Del terzo atto della trilogia Starnone, Autobiografia erotica, dopo La scuola e Lacci, Silvio Orlando è solo produttore con la Cardellino srl, guidata da lui e dall'attrice Maria Laura Rondanini, sua moglie. «Forse sì, possiamo definirla una trilogia immaginaria, diciamo che abbiamo accompagnato un po' Domenico (Starnone, ndr) nella sua avventura letteraria nell'Italia dagli anni '80 a oggi, un ultimo atto, quello più estremo e, forse, il più cupo». Autobiografia erotica di Aristide Gambía, un adattamento scenico curato da Starnone stesso, in scena dal 10 al 13 maggio 2018 al Teatro della Tosse per la regia di Andrea De Rosa, interpretato da Vanessa Scalera e Pier Giorgio Bellocchio.

«Si presenta con un linguaggio un po' forte, l'unico possibile per questa storia. Domenico non ci ha rinuciato. Spesso si parla di erotismo con linguaggio paludato, qui no. Si è calati in una vicenda che parte da un torrido pomeriggio di sesso poi, dovendo ricostruire quanto successo, è come se ci si dicesse "ma perché essere ipocriti?"». L'autore non censura quella lingua attraverso cui la vicenda si eprime, ma perché una donna decide di incontrare di nuovo un uomo che l'ha dimenticata dopo un unico episodio di sesso? «Sembra una specie di resa dei conti tra i due - Aristide e Mariella, entrambi napoletani d'origine - la donna vuole ricostruire quel momento, per lei determinante, mentre per lui è solo un ricordo vago. A partire da questo evidente contrasto, nasce la tragedia, si racconta quello che si aspetta dal sesso l'uomo medio e quello che cerca la donna. In lui il sesso non lascia traccia, mentre per la donna è l'inizio di qualcosa».

In questo lavoro Silvio Orlando non figura tra gli interpreti, quindi nasce spontanea una domanda, quanto sente suo questo lavoro? «La prima volta che l'ho visto, ne sono rimasto un po' sconvolto. Non rispecchia molto i toni nostri, quelli che con certi filtri, giocano su toni ironici, ma mi interessava. Per quello che deve fare il teatro, questo andare a scavare nella zona nera di tutti noi, nelle cose più inconfessabili dell'animo umano, che neanche immaginavamo, mi è sembrato centrato. Tra i nostri spettacoli, è quello che meno di tutti ha relazioni con il realismo. Andrea (De Rosa, ndr) l'abbiamo tirato un po' per la giacchetta, per farlo restare tra noi. Lui l'avrebbe fatto ancora più astratto e metafisico. Però è anche riuscito a tirare fuori gli archetipi di uomo e donna e, per questa via, ha saputo trovare il modo perché tutti possano identificarsi. Nell'osservare i personaggi viene immediato chiedersi: Sono io quello lì? Sono io quella lì? Cosa avrei fatto al loro posto? Un'operazione chirurgica, una regia elaborata su secchezza e asciuttezza, non ha orpelli né scenografici né narrativi. C'è uno scheletro di storia che scava negli abissi umani». 

Su Wikipedia, Orlando non ha una teatrografia, come mai? chiedo. «Con internet ormai noi non ci apparteniamo più». Anche della Cardellino srl non si fa menzione, mentre già nello scorso triennio ha ricevuto una piccola sovvenzione ministeriale e buona valutazione rispetto ai parametri della qualità che gli ha portato un contributo anche per il prossimo triennio. Quale progetto sta dietro alla casa di produzione? «Sono gli ultimi 7 anni del mio lavoro. Per 18 sono stato prodotto da altri, una produzione molto importante, per cui non mi dovevo preoccupare di niente, con cui mi trovavo molto bene. A un certo punto, ho sentito l'esigenza di dare un senso meno episodico a quello che stavo facendo. Sono entrato così in un nuova fase della mia carriera, dove sentirsi responsabile in tutti i sensi di quello che si porta in scena. Partiamo dal primo embrione di idea, dalle virgole per arrivare alla locandina, è un arco molto faticoso, devi seguire tutto. Però rispetto a questa grande stanchezza che oggi proviamo un po' tutti, deriva dal fatto che raramente troviamo il senso del perché facciamo quello che facciamo. Ora, facendo produzione la fatica diventa più accettabile».

Come si vive sotto un capo donna? (Rondanini è l'amministratrice delegata della Cardellino srl) Come si lavora con la propria moglie? «È un nuovo modo per vivere il rapporto personale, dove nessuno è spettatore della vita dell'altro. Siamo co-protagonisti». Parlando del suo lavoro all'interno della serie The Young Pope, aveva indicato il recupero della dialettica tra produzione e regista/autore, è un discorso che vale anche per la Cardellino produzioni? «Stiamo parlando di dimensioni molto ma molto diverse, noi, in piccolo, quello che crediamo, occorra non smarrire mai nel fare artistico, è tenere un filo di umanità che sappia legare tutti. I mega progetti sono dei moloch ai quali tutti si immolano, ma dentro i quali si è tutti ospiti. Per quanto ci riguarda a noi interessa restituire semplicità del fare le cose».

L'anno scorso aveva ventilato l'ipotesi di portare in scena un testo di Lucia Calamaro, è sempre valido il progetto? Si farà? «Come no? Cominciamo a fine maggio e siamo in scena il 30 giugno al Teatro Festival di Napoli. Si intitola: Si nota all'imbrunire, una coproduzione tra Cardellino srl, il Napoli Teatro Festival e lo Stabile dell'Umbria». Interpreti?  «Roberto Nobile, io e Maria Laura (Rondanina, ndr), Riccardo Goretti e Alice Redini». E la regia? «Di Lucia Calamaro in un tentativo di incontrarsi a metà strada». In che senso? «Lei proviene da una forma di teatro molto sperimentale, io faccio un teatro che cerca di arrivare comunque, seppure con approfondimento dei temi, dappertutto. Vediamo se si riesce a creare una sintesi dei due mondi senza che nessuno distrugga l'altro. Per linguaggio, temi, idea di recitazione non retorica, lo vedo molto mio, vedremo». 

Che tematica porta in scena? «La solitudine sociale, una forma di epidemia del nostro contemporaneo: persone di cui perdi notizia. Vanno a stare da qualche parte e non le senti più. Può  trattarsi di un parente, un amico. È una cosa non astrusa ma che sta diventando una vera malattia di massa, con il trionfo di questo individualismo dominante, spesso le persone pensano di bastarsi, quindi fanno meno passi verso gli altri e gli altri per pigrizia altrettanto. Quindi tanti scompaiono. Il sottotitolo in qualche modo lo spiega: Solitudine da paese spopolato. Il paesaggio interiore diventa sempre più spopolato fino all'abbandono e così si perde certa bellezza e dei modi di vivere, perché le persone sono dei piccoli patrimoni dell'Unesco».

C'era un altro progetto che aveva dichiarato starle molto a cuore: Uccellacci e Uccellini, di Pier Paolo Pasolini. Sogno nel cassetto o desiderio concreto? «Spero di sì. Devo solo trovare il regista giusto. Non è facile: è un lavoro da indovinare scenicamente. Il confronto con questo Pasolini è stimolante ma mi spaventa molto. Pasolini era un connubio incredibile tra un'immaginario pazzesco, pittorico, un cinema bellissimo da vedere, con un'indagine sociale e intellettuale enorme. Pasolini è stato una cosa che non si era mai vista prima, un'epifania di qualcosa che prima non c'era. Era capace di essere originale, senza essere auto-compiaciuto. Le sue battaglie civili erano sempre molto profonde. Anche la sua morte, un lutto che non può essere elaborato, come se un'astronave l'avesse portato via, siamo ancora lì a chiederci cosa direbbe, cosa farebbe Pasolini come porterebbe al cinema certi temi di oggi, no?» Ma si può fare a livello di diritti? «Sì perché mi avevano dato l'ok per una versione teatrale già negli anni '80 su questo, mentre su tutto il resto c'è il divieto più assoluto». Che caratteristiche ha questo regista? Chi potrebbe essere? Un Antonio Latella? Un Fabrizio Arcuri? «C'è questo giovane, Alessandro Serra, e il suo Macbettu sardo, ecco quello mi piacerebbe che fosse, per fantasia concretezza bellezza. Sono immagini però, solo immagini, del regista in carne e ossa sono ancora alla ricerca, ma credo che prima o poi lo troverò».

Di Laura Santini

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