Per Marcela Serli il teatro è un mettere insieme

Laura Santini
Teatro Bloser Cerca sulla mappa

Genova, 22/01/2018.

Mettere insieme storie.
Mettere insieme persone.
Mettere insieme con o senza strumenti.
Mettere, insieme - o forse mettere in, insieme - nel senso di stimolare e accogliere il contribuito per restituirlo in un composto. Per Marcela Serli il teatro è prima di tutto relazione. La finzione, il gioco, la tecnica recitativa, le luci i costumi e la scena sono tutti attrezzi. In Me ne vado poi volutamente poveri attrezzi. Un armamentario inadatto o meglio adattato all'arte povera del fare teatro, di un one-woman show in parte laboratorio, in parte apologia teatrale, in parte conferenza-autobiografica, in parte collage di quel tempo storico che è tutto identitario e sta in una dimensione biologico-esperienziale, a partire da quando nasciamo per poi estendersi indietro, guardando alla Storia, in funzione della propria necessità di sapere e capire. Una cifra stilistica non dissimile da quella con cui Serli ha realizzato Variabili umane, con il suo gruppo Atopos, (visto alla Tosse per Life festival ). 

Il palcoscenico allora crea un'occasione di barrato intellettuale tra chi chiede attenzione e chi si è seduto per concederla - ma come sappiamo, il pubblico può anche rifiutarsi di barattarla, addormentandosi, annoiandosi o facendo rumori molesti. No, no, niente di nuovo probabilmente ma, infatti tutto nuovo, per la dimensione drammaturgica che questa idea del baratto intellettuale assume in Me ne vado e per il rischio che questa forma di teatro-partecipato richiede. Marcela Serli pretende che il baratto si compia e scardina la seduta comoda, scova e porta in scena i gesti articolati nel buio della platea, crea un'attività manuale da condividere e la recupera portandone in scena l'esito - in una chiusa simbolica del suo racconto sulla migrazione.

Continuamente mettendo in discussione la bontà dello spettacolo, la sua artisticità in assenza di mezzi, Serli costruisce il suo luogo idealem, ovvero uno spazio espressivo libero che tutti possono colonizzare perché non è di nessuno, per definizione, il palcoscenico. Lì Marcela Serli fa dire a suo padre, assente, che non c'è un luogo del mondo in cui gli piacerebbe stare perché ogni luogo è la somma di chi ci vive, di chi prova a viverci, di chi vorrebbe viverci e di tutti coloro che, soltanto transitando, lasciano il loro segno, in vari modi - senza contare tutti coloro che, invece, scrivono regole su chi può e chi non può stare.

Si parte dagli stereotipi: Chi se ne va ci sta male nel proprio paese. Chi se ne va è solo la feccia. Chi se ne va sono i poveri. Dalle rabbie, dai conflitti, dalle bombe. Si passa per i cognomi: quelli d'origine e quelli "addomesticati" dalle istituzioni per esempio, come fece Mussolini durante il fascismo, con il cognome Scherlic di suo padre, dalle sonorità troppo slave, straniere, trasformato nel più "corretto" Serli. Si attraversano i paesi, gli oceani, si percorrono verbalmente alcune immagini della prima e della seconda guerra mondiale, si transita a più riprese sulle tracce delle tante migrazioni verso l'America. Si inciampa su dittature, sul terrorismo di stato con i desaparecidos, su quello indipendentista di minoranze che resistono e lottano contro chi li vuole altrove e infine su chi è erede di troppe nazionalità - come il frigo della sua famiglia. Andare però, ci ricorda Serli, è talvolta una scrittura che percorre il nostro DNA. Andare è una necessità interiore: è andare alla scoperta, è lasciare qualcosa e qualcuno, è staccarsi, è cercare, è non voler restare, è codardia o coraggio a seconda delle posizioni. È un complesso di tempi e ragionamenti, mai solo risultato di un'idea romantica o di evasione.

Per Marcela Serli - argentina di padre triestino-istriano e madre a sua volta di origini libanesi - andare è un altro dei concetti appiattiti, reso inutile o quasi in fissità da stereotipo: ora usato per denigrare, ora per dare nuova dignità al proprio passato; o per lamentarsi e piagnucolare di esodi pericolosi, tra le nuove generazioni. Per raccontare una storia di oggi, che è poi di ieri e di sempre, una storia ferocemente attuale che tratta il tema dei diritti e quindi del dolore e della trasformazione - in assonanza con alcuni dei concetti di Variabili umane, in Me ne vado Marcela Serli stratifica azioni di spaesamento, aggiunge interruzioni, pianifica tempi di attesa perché il tema sia esperienza di ognuno al di là della volontà o meno di baratto intellettuale. È così che il pubblico, lo voglia o no, entra in scena, ne viene respinto, viene illuso nell'idea empatica di facili emozioni più o meno comiche, satiriche, positive o negative, poi ricacciato indietro a parole, tramite le luci, con un pezzo musicale o per un voluto inciampo drammaturgico.

Mi viene in mente l'arte dell'inglese Hamish Fulton, uno tra coloro che si definiscono walking artist: per lui il gesto artistico può essere solo il risultato di una camminata individuale, per cui non c'è prodotto artistico da comprare perché una camminata non è in vendita, si può solo intraprendere. Ecco, lo spettacolo di Marcela è un teatro-camminata un baratto intellettuale (in parte emotivo) che ricorda chi percorreva lunghe distanze per portare formaggio e raccogliere sale, facendo incontrare due territori lontani, due modi di vivere e due culture geograficamente distanti ma necessarie l'una all'altra. Sarà perché nel mondo globale le cose arrivano a casa che il concetto di territorialità è diventato un deforme MIO che esclude tutti in modo grottesco.

Un altro tutto esaurito per la stagione del BLoser guidata da Cristina Cavalli che l'8 febbraio (ore 21) prosegue con Irene Serini in Italiani veri, affiancata in scena da Nicola Orofino con cui ha sviluppato il progetto ItalianSelfie, «con l’intento di indagare e mettere in relazione gli italiani e le loro reciproche diversità geografiche, linguistiche, sociali, culturali e lavorative».

@Teatro BLoser
21 gennaio 2018

Me ne vado
di e con Marcela Serli
Progetto vincitore del Premio “Emergenze 2009” con il sostegno della Provincia di Massa Carrara e dell’Associazione Arts Village. Primo premio “I racconti dell’isola” Isolacasateatro (Milano), Me ne vado è un piccolo dolore che parla delle paure che ognuno ha, dell’odio che proviamo, del desiderio di andarsene, anche da se stessi. 

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