Valerio Malorni al BLoser nella stagione di Cristina Cavalli

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Genova, 26/11/2017.

Da questa stagione - e per certo il 24 novembre 2017 - con Nessuno può tenere baby in un angolo di Simone Amendola e Valerio Malorni (anche interprete), il BLoser ha fatto saltare i tavolini, proponendosi senza più compromessi come un piccolo teatro a tutti gli effetti. Forte della programmazione OneBLoser, con la direzione artistica di Cristina Cavalli, votata a mettere in circolazione talenti da tutta la penisola, con lavori già applauditi o in fase di studio ma, soprattutto, con drammaturgie originali, il piccolo spazio crea un'occasione unica, per pubblico e interpreti, proprio sfruttando la vicinanza. Essere a ridosso della scena e dell'interprete non necessariamente è garanzia della buona riuscita di una serata teatrale, anzi il rischio in verità aumenta, ma per ora diciamo che la qualità ha tenuto benissimo - ricordiamo un po' a braccio qualche indubbio felice esempio: Oscar De Summa, Antonello Cossia, Chiara StoppaFrancesca Farcomeni, Arianna Scommegna e, certo, Malorni.  Prossimo appuntamento, venerdì 1 dicembre (ore 21), con Caterina Simonelli e il suo lavoro, vincitore del Roma Fringe Festival, un Real Lear dove la vicenda leggendaria di Shakespeare e quella privata dell'attrice si sovrappongono.

Nato attraverso una residenza teatrale con Carrozzerie n.o.t. di Roma e il sostegno del Teatro Area Nord e del Festival Attraversamenti Multipli (anche a Genova nel maggio 2017),  Nessuno può tenere baby in un angolo è un'incursione in temi grandi e senza tempo: la normalità, la deviazione, la solitudine, la frustrazione, l'incapacità di cogliere la propria natura e quindi perdere ogni residuo di fiducia in se stessi. L'amore. La possibilità di essere un eroe agli occhi di qualcun altro/a, come sembra alludere il titolo, ricordando la celebre battuta del film Dirty dancing e quel gesto di possibile riscatto offerto da un giovane innamorato a una ragazza costretta dentro regole familiari troppo rigide.

Un monologo-deposizione ci allaccia alla dimensione personale di un benzinaio di periferia accusato di un crimine efferato. Paradossalmente, la verità e la dimensione intima diveranno progressivamente più insondabili. Colpevole? O, forse, come sembra insistere lui, vittima di un complotto?

Davvero innocente, ma stretto dall'accusa di colpevolezza da circostanze sfavorevoli e dalla mancanza di un alibi solido? O magari, realmente omicida, ma incapace di vedersi come tale e dunque determinato a nascondere il sé da sé di fronte a una brutale e insopportabile verità: un femminicidio, quello che a violenza aggiunge accanimento. Un corpo privato della testa confezionata altrove in una busta. Il tutto in un'affannosa corsa di parole inanellate a discolpa. Una lei inizialmente non nota, un lui (indiziato o omicidia) e l'altro (amante-omicida o solo amante). Ma chi è questa "lei"? E questo "lui" ma anche "l'altro", chi sono? Tutto sembra sovrapporsi seppure la dimensione narrativa e cronachistica tiene insieme il monologo in un atto dichiarativo, che tenta continuamente di farsi ragionamento lucido, salvo poi essere intaccato da degli "a voce alta" in cui il sé confronta ciò che dice con quello che gli altri potrebbero percepire o comprendere. Ma cos'è la normalità? Dov'è la verità?

Velocità modulate caratterizzano la recitazione di Valerio Malorni  - già a Genova nel 2015 con Alice del Teatro del Piccione. Parte lento, da malinconiche sconfitte originarie, miti fallimentari dell'infanzia - «mio papà era il mio supereroe, l'unico che russa e porta fuori il cane». Il sogno di un futuro a rapido accesso intravisto dentro il portafoglio di un benzinaio sempre gonfio, dunque immagine di ricchezza sicura agli occhi di un bambino. Si accelera con rabbia dentro la foga di trovare argomenti razionali e percorsi logici che portino la propria normalità a discolpa dell'anormalità di un delitto aberrante. Poi si rallenta di nuovo, seppure pronti allo scatto, a un nuovo incalzare del ritmo, di fronte a un avvocato che non offre risposte, fantoccio statico e muto che una volta di più conferma l'isolamento del personaggio, il suo essere messo alle strette dalle domande di una voce fuori scena che insiste sulla sua colpevolezza e sembra persino aver manipolato la sua deposizione.

Mentre crimine e criminale vengono associati alla propria esistenza, il testo di Amendola ci conduce anche all'interno di una mascolinità come tante: non certo un macho, non un bullo, non proprio a suo agio con le donne ma neanche del tutto incapace di relazionarsi, quindi piuttosto schivo, solitario, insicuro, bloccato dal timore di non essere all'altezza, di non risultare interessante, di non suscitare curiosità. Niente di decisamente patologico tuttavia.

Testo drammatico e drammaturgia scenica lavorano sulle varie sfumature dell'abnorme ciò che non è normale, che è anomalo, ma anche eccessivo e, parallelamente, su questa idea che attraversa tutto il testo per cui ciò che è vero e ciò che non lo è si tengono stretti in una possibile versione della realtà che è sempre soggettiva: così nell'utilizzo del voice off, una voce metallica più registrata che umana; così con un avvocato-manichino privo di battute ma anche del minimo movimento (respiro); così la sedia sproporzionatamente grande su cui il benzinaio muove le prime battute regredendo all'infanzia, rimpicciolendosi per dimostrare la sua innocenza anche a livello simbolico. Fino al parossistico travestimento alla zorro - o, forse si tratta di Don Chisciotte? - che fa virare la recitazione dentro un'altra lingua, uno spassoso pseudo-spagnolo, gesto estremo per invocare clemenza, travestimento linguistico che consente di presentarsi sotto un'altra veste e offrire un altro sé, magari migliore, in un nuovo profilo linguistico-psicologico.

Tutto collabora a spiazzare il senso. Con meticolosa coerenza, tutto torna preciso, testimone di una sintonia forte tra Amendola e Malorni che da qualche tempo hanno decido di far combaciare i propri percorsi artistici. Simboli, espedienti narrativi, trovate sceniche e trucchi teatrali puntano a impedire di fatto l'intero gesto del protagonista: definire la realtà e scagionarsi. Come avvolto nel proprio incubo, questo personaggio è forse solo di fronte alla propria coscienza, piuttosto che di fronte a un tribunale e l'unica via d'uscita in realtà non è percorribile perché chiede di far fronte a se stessi. Vigorosa l'interpretazione; lancinante la linea narrativa percorsa, intenta a lacerare un'io debole ma resiliente; sicura la regia capace di tenere tutto dentro l'assunto dell'infondatezza. Da vedere.

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@ BLoser 
24 novembre 2017

Nessuno può tenere baby in un angolo
scritto da Simone Amendola
collaborazione al testo Sandro Torella
intepretato da Valerio Malorni
scenografia Giulia Giorgi, Hichm Mouhim, Faisal Dasser, Fosca Tempera
regia Simone Amendola, Valerio Malorni
produzione Blue Desk
residenze produttive Teatri Associati - Napoli; Carrozzerie not - Roma
con il sostegno di Attraversamenti Multipli
disegni Alessandro Baronciani

Di Laura Santini

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