Genova mia, la città come non è mai stata raccontata

Pubblichiamo di seguito un estratto dal volume Genova Mia, la città come non è mai stata raccontata (Polaris, 2017) a cura di Elda Cerchiari Necchi e Chiara Rosati. Oltre quaranta protagonisti della vita sociale e culturale della città descrivono una Genova personale e inedita spaziando dal cinema al teatro, dalla pittura all'architettura, dalla musica alla fotografia, dall'antropologia alla letteratura, dalla speleologia ai fondali del golfo, dalle scienze alle vicende storiche, dall’industria all’impegno sociale.

Genova, 23/11/2017.

La crêuza degli ulivi di Bruno Morchio

La veduta della città dall’alto (il Belvedere Montaldo, costruito sull’area dove era l’antico Castelletto, costituisce una delle prospettive più stupefacenti sulla città vecchia) rende bene l’idea di come la Superba si sia sviluppata su un esiguo lembo di terra, tra il mare e le alture, che ha costretto i suoi abitanti a erigere fin dai tempi più remoti alti palazzi, ammucchiati gli uni sugli altri, e attraversati da un reticolo di stretti vicoli – i Caruggi, appunto – dove il sole arriva solo a mezzogiorno e staziona poche ore, come un ospite che va di fretta.

È la Genova verticale di cui cantava Giorgio Caproni, con i suoi trapezi di cielo intrappolati fra le grondaie, con i muri delle case che sembrano convergere fin quasi a toccarsi, e il suo gioco di ombra e luce che ne fanno uno straordinario sfondo per qualunque storia noir.

Città portuale del Mediterraneo che, per peculiari circostanze storiche e urbanistiche, ha dato asilo ai dannati della terra che provengono dall’Africa, dall’Asia e dall’America Latina, non relegandoli nelle remote periferie, ma accogliendoli nel cuore del suo centro storico. Qui si è realizzata una coabitazione non sempre facile, e tuttavia culturalmente feconda, fra genovesi e foresti, che si sono suddivisi le stesse strade e gli stessi palazzi. Palazzi un tempo sontuosi, appartenuti all’aristocrazia mercantile della città, e ora lasciati andare, ma che portano ancora evidenti i segni della loro bellezza nei portali scolpiti di marmo o ardesia, nei grandi scaloni che salgono verso attici e terrazze dal panorama vertiginoso, nelle edicole votive costruite ad ogni angolo di strada.

Per vedere tutto questo bisogna camminare con la testa rivolta in alto, emulando un’antica (e spesso crudele) fierezza, quella dei signori della Repubblica marinara.

Questa è la Genova che io amo, la città del mio personaggio, l’investigatore privato Bacci Pagano, il ratto dei Caruggi. Questa è la città colorata che racconto nei miei romanzi, cercando di accompagnare la sua rappresentazione con elementi legati alla memoria e agli affetti. Non pure descrizioni, dunque, ma scorci che rimandano a frammenti di vita vissuta. Genova non si descrive, si vive e si respira. Con tutte le sue contraddizioni e le pecche che la affliggono (prime fra tutte l’invecchiamento della popolazione e la difficoltà di inandiare un futuro alle nuove generazioni), resta una città che merita d’essere conosciuta, scoperta, andando a rovistare proprio là dove essa nasconde le sue bellezze. Si dice che, più di ogni altra cosa, i genovesi temano l’invidia, e siano pertanto portati a nascondere piuttosto che esibire le proprie ricchezze. Forse anche per questo la città si è raccontata così poco. Con i miei mezzi, modesti quanto si vuole, ho provato a sfatare questo luogo comune, raccontando la città e facendone la co-protagonista dei miei romanzi.

Il brano qui riportato è tratto dal mio terzo romanzo, La crêuza degli ulivi, pubblicato dalla Fratelli Frilli Editori nel 2005 e ora ristampato, in una nuova edizione da Garzanti. La scrittura del romanzo ha seguito quella di Maccaia, il primo libro che racconta le vicende del detective genovese Bacci Pagano.

Mi fissò l’appuntamento sul belvedere della Spianata di Castelletto, alle sette di quella stessa sera. Non gli passava neanche per la testa che avrei potuto essere già impegnato. Pensai che gli orizzonti di certi personaggi non spaziano gran che al di là delle proprie esigenze. Ma feci buon viso a cattiva sorte, e acconsentii.

Evidentemente gli premeva scrollarsi di dosso al più presto quella seccatura, ma al tempo stesso voleva tener buona la moglie, con la quale, dopo aver confessato l’adulterio, gli restava qualche conticino in sospeso.

Decisi di andarci a piedi, con l’idea di lavorare facendo finta di essere in ferie, o viceversa. Un po’ come Poirot in Assassinio sul Nilo. Verso le sei uscii di casa, scesi lungo lo Stradone, montai per salita Pollaiuoli e, attraversata piazza Matteotti, mi infilai dentro al Palazzo Ducale. Uscito su piazza De Ferrari e superato il teatro Carlo Felice, col suo grande cubo incombente, raggiunsi Portello dove mi aspettava l’ascensore liberty di Castelletto. Quello con cui Giorgio Caproni voleva andare in paradiso.

Era uno stanco giovedì di fine agosto e, dopo la bella mattinata di sole, il pomeriggio aveva depositato sulle strade un’afosa cappa di maccaia. Ormai da qualche anno, dopo che i grandi stabilimenti industriali del Ponente e della Valpolcevera erano stati chiusi o ridimensionati, nel mese di agosto la città aveva smesso di svuotarsi. La classe operaia era davvero andata in paradiso, quello della pensione anticipata e del secondo lavoro in nero. E infatti, a differenza di quanto sarebbe accaduto fino agli anni Ottanta, non mi ritrovavo a passeggiare in una Genova deserta, ma in mezzo a una varia umanità.

Oltre all’immancabile comitiva di giapponesi armati delle loro immancabili macchine fotografiche, incontravo impiegati che, usciti dall’ufficio, non perdevano l’occasione per prendere un aperitivo nei bar di Matteotti o di piazza delle Fontane Marose, o per lanciare un’occhiata alle vetrine dei negozi di via XXV Aprile. Desolatamente chiusi. Perché, né più né meno che una ventina di anni fa, in agosto i bottegai genovesi continuano a chiudere compatti in un’unanime serrata vacanziera. Perfino per comperare il pane o il latte, devi muovere il culo e spostarti da un quartiere all’altro. Un gigantesco pullman con aria condizionata e intercooler vomitò davanti al Palazzo Spinola una disciplinata comitiva di turisti con gli occhi a mandorla. Miagolavano sommessamente tra loro, con le bocche aperte di meraviglia davanti alle bande bianche e nere della facciata. Ancora foto e telecamere digitali.

Mi dissi che, forse, nella mistica del Sol Levante catturare un’immagine equivale a impadronirsi dell’essenza della cosa stessa. Né più né meno che fra i boscimani australiani e fra i trobriandesi di Malinowski. Dai vicoli che salgono dal centro storico sbucava, qua e là, qualche immigrato proveniente da una delle tante plaghe dolenti della terra.

Neri, arabi, ispanici. Di quelli esperti in partenze intelligenti. All’inseguimento di un altro sogno, diverso dai soliti. Non il mare o la montagna, come succede da questa parte del mondo, ma una vita meno grama o, forse, sopravvivere e niente più.

La galleria dell’ascensore era fredda e umida, e odorava di cantina e di muffa. Alle pareti, una lunga striscia di graffiti colorati con riferimenti alla politica, al Genoa, alla Sampdoria e, naturalmente, al leitmotiv di tutti i graffiti del mondo, dal vetro delle cabine telefoniche alle porte dei cessi degli autogrill. Cazzi, fiche e culi a non finire. In tutte le loro combinazioni Possibili, con innumerevoli variazioni sul tema.

L’ascensore era quasi vuoto. Lento e signorile come i borghesucci che abitano il quartiere di Castelletto. Con la delicatezza di un salumiere quando deposita le fette di cima ripiena sulla carta velina, mi sollevò dal centro storico per portarmi, se non proprio in paradiso, ad affacciarmi alla balaustra del belvedere Montaldo, dove pare di toccarli, i grigi tetti di lavagna della tremula Genova di Caproni.

Qui fui colpito dal fatto che per la strada ci fosse pochissima gente. Allora mi venne in mente che ero a Castelletto, un quartiere abitato dai signori. E che in agosto, in barba alle partenze intelligenti, chi può molla la fradicia calura di Genova e porta via l’anima. Era ancora presto e faceva molto caldo. Mi incamminai lentamente verso la gelateria della Spianata, quella sull’angolo del palazzo dove è sistemata la Croce Verde. Da sempre le gelaterie sulla piazza sono due, una di fronte all’altra. E si guardano male, come due cani gelosi del proprio territorio. I tavoli sulla pedana di legno lungo la strada erano tutti occupati da clienti attempati che prendevano l’aperitivo o leccavano con gusto il loro cono gelato. Entrai deciso e ordinai al banco un vino bianco. Lo volevo fresco e fruttato, e il barista mi servì un Traminer che si dimostrò all’altezza delle mie aspettative. Un vino molto chiaro, quasi trasparente, morbido e abboccato al punto giusto. Mentre pagavo gli feci i complimenti e quello mi restituì un sorriso compiaciuto che valeva qualcosa di più che un’espressione di circostanza. Quindi me ne tornai sul belvedere deserto, a gustarmi il tramonto sulla città e sul mare. Ero arrivato con mezz’ora buona di anticipo. Avevo tutto il tempo per godermi lo spettacolo, appoggiato alla ringhiera di quella terrazza che domina tutta la città. Per dare più sapore alla cosa, caricai e accesi la pipa. Proprio in quel momento, mi tornò in mente Mara. E le sue parole di due giorni prima. Quando, provocatoriamente, mi aveva invitato ad accendermi la pipa e poi si era messa a piangere. Quel pianto mi parve di ritrovarlo lì, a far lustre le chiappe di ardesia sotto di me, sbavate dalla brezza di scirocco e dalla maccaia estiva.

La pancia grigia della città pareva davvero di poterla toccare allungando una mano. Un intrico di tetti obliqui, embricati in un complicato gioco di incastri sotto cui si srotolavano le budella dei Caruggi. Col loro variopinto popolino fatto di bottegai, artigiani, bagasce, spacciatori e un esercito di immigrati, regolari e clandestini. Tutto un brulicare di minute attività legali e illegali e un fluire di merci che per secoli quei puzzolenti intestini hanno metabolizzato, facendo ricca e potente la Repubblica marinara. Verso ponente, oltre la oblunga sagoma della Lanterna, il sole stava calando e tingeva di arancione quel rebigo di tetti grigi, su cui svettava la selva dei campanili.

La sobria linea delle Vigne. La mole panciuta di San Lorenzo. L’ambigua essenza di San Giorgio, mezzo campanile e mezzo torre. E poi San Donato, Sant’Agostino, San Silvestro, Santa Maria di Castello. E ai lati, a delimitare i confini del centro antico, i grattacieli di piazza Dante, quello di Brignole, che i genovesi chiamano ancora della SIP, il dado megalitico del teatro Carlo Felice e la mostruosa mole dei grattacieli gemelli di Corte Lambruschini, brutti e famigerati come gli anni Ottanta in cui furono costruiti. Una casereccia skyline buona solo a coprire la visuale sul Borgo Pila e sui quartieri orientali della città.

E, là sotto, protesa sul mare che aveva ormai perso la sua lucentezza, la tenaglia del Mandraccio, il porto vecchio, chiuso tra la scatola dell’Acquario e i Magazzini del Cotone. Spiccavano il Bigo, il suo ascensore cilindrico e le vele bianche dell’Expò, immobili. Tutta un’invenzione del più illustre dei genovesi viventi, quel Renzo Piano che ha dovuto disseminare mezzo mondo con le sue impennate d’ingegno prima che i suoi concittadini si accorgessero che esisteva. Del resto, noi genovesi siamo fatti così. Produciamo poeti, naviganti e cantautori che magnanimamente lasciamo agli altri scoprire. Esportiamo talenti e importiamo le loro opere con la stessa diffidenza con cui mangiamo i muscoli spagnoli e assaggiamo i vini cileni. Per una familiarità storicamente acquisita, solo con i prodotti inglesi non facciamo storie.

Siano i maglioni shetland o i whisky scozzesi. E perfino le bombe lanciate dal mare. Come accadde nel febbraio del 1941, quando la flotta di Sua Maestà britannica bombardò la città e i genovesi non trovarono niente da ridire. Anzi, qualcuno in dialetto si spinse a commentare: «Ma come hanno bombardato bene!». Quando suonarono le sette andai a sedermi su una panchina affacciata alla ringhiera. Svuotata la pipa, mi apprestai a incontrare il dottor Eugenio Amidei.

Il luminare del bisturi si presentò con l’aria sbrigativa di uno che è sceso per buttare il sacchetto della rumenta. Una persona impegnata che non ha tempo da perdere e intende subito riguadagnare l’intimità della propria bella casa, e il piacere della cena che lo aspetta. Girò intorno alla panchina e mi si parò davanti, facendo schermo agli ultimi raggi del crepuscolo. «Lei sarebbe il detective assunto da mia moglie?»

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