Amletto: commuove Campanati tra Shakespeare, identità e faccende di memoria

Donato Aquaro
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Genova, 16/11/2017.

Am letto ovvero "Io sono (I am) a letto". Metafora di un mal di vita o di una reale malattia?
Amletto ovvero l'opera shakesperiana proposta in forma di lettura. Letta per essere detta a memoria, da attore.
Amletto ovvero una rivisitazione del noto dramma del Bardo a partire dal suo più celebre passo: "Essere o non essere".
Amletto ancora metafora che guarda a ben altro tipo di male, quello esistenziale che, prima o poi, coglie tutti, quello sulle origini: chi ci ha generato? e perché? chi siamo? cosa vogliamo? 

Si potrebbe indugiare oltre sui giochi di parole, le libere associazioni che il titolo di questa produzione suscita, per leggere le intenzioni contese tra il serio e il giocoso che hanno mosso Enrico Campanati e Emanuele Conte a ri-elaborare un classico assoluto, rimescolando e portando in primo piano tutti i riferimenti in esso contenuti sul senso stesso del fare teatro: l'esserne interprete, il donare voce e corpo a tante altre voci, il gioco del teatro-nel-teatro. Il nocciolo però è altro e viene sovrapponendosi al guscio di noce di Shakespeare: «potrei viver confinato in un guscio di noce, e tuttavia ritenermi signore d'uno spazio sconfinato». Dove lo spazio sconfinato sono gli infiniti ruoli che ogni attore ha davanti a sé mentre il limite, il guscio di noce, è una mente imperfetta che in questo caso fa saltare l'immaginario e i ricordi come emerge dal reticolo di materiali intimi e personali di Campanati, ora intessuti con spezzoni del dramma elisabettiano in questo Amletto - nuova produzione del Teatro della Tosse in scena fino al 19 novembre 2017.

Nato, come raccontato da Campanati e Conte, da un episodio di vita reale di cui l'attore è stato suo malgrado protagonista, un'amnesia totale temporanea, questa drammaturgia è un testo originale a cui accanto a Conte hanno collaborato Alessandro Bergallo e Alessio Aronne puntando a far risuonare varie corde e chiamando il pubblico al massimo raccoglimento ma anche alla risata in punta di battuta. 

Con un letto accanto, Campanati non è mai un malato immaginario. Folle? Neppure. Patetico perché capace di pathos, di influire con una certa intensità là dove la fragilità umana si condivide a pelle. Campanati è malinconico e inconsolabile ma ingaggiato al contempo in una lotta senza posa. Irriducibile eppure senza appigli eppure teso a recuperare la propria memoria che gli sottrae il proprio io nella sua complessità, offrendogli un'identità posticcia e monca. Seppure in dialogo esclusivamente con se stesso, l'attore resta in costante parola-azione intento a contrastare uno smarrimento viscerale che deriva da una voragine nella memoria e da un assillo altrettanto spaventoso paragonabile alla vista su un orrido: ricordare/non ricordo.

Campanati commuove e agguanta gli spettatori per il bavero mentre persegue il suo lucido brancolare, si dimena in uno stato di demenza capace di assurgere a personaggio. Folle no, lucidamente perso, sì. Letteralmente non più, non-io (beckettianamente) eppure in vita. In un corpo-a-corpo tra io e me, un sé acerbo ingaggia la sfida con un sé non-più-noto, rovesciato per errore da qualche parte e forse irrintracciabile. Ogni parola è un appiglio, un gancio teso a recuperare stralci e ricomporli con ordine, l'attore usa il suo mestiere per risalire a galla, per rintracciare «il filo della matassa», qualche lembo di un prima: «le parole sono la cartina geografica dei pensieri».

Succube dell'incubo più temibile, ora l'attore fa le prove di dizione «rabarbaro rabarbaro rabarbaro», di tonalità e suono «io io io io io» ora tenta un famoso verso per scalzare quel velo che tutto annienta di cui la mente è abile artefice. Ora registra e riascolta passi di una parte. Si perde a giudicare il tono: «Troppo enfatico. Troppo piagnucoloso». Con il mano il registratore, l'attore viene portato a citare o rivisitare L'ultimo nastro di Krapp, ma qui l'obiettivo è preciso e ristretto, c'è una dichiarata missione. In Beckett c'è un procedimento quasi opposto, c'è tutto un passato, tutto un repertorio di "io" con cui incontrarsi e ritrovarsi quasi da vecchi amici o lontani conoscenti, c'è il timore di confrontarsi con alcuni nastri, alcuni ruoli del proprio "io" che sono un particolare esempio di "io" storico di cui sarebbe stato meglio disfarsi, cancellare il nastro o perdere per amnesia, appunto.

Con lo sguardo fisso alla platea ma introflesso, puntato il più lontano possile dentro un sé. Incerto, impaurito, angosciato, colto da repentine ansie per la morte della madre che forse qualcuno nasconde, o lui stesso cela a sé. Scosso per l'assenza o la presenza di un cane: «il mio cane o il tuo cane? Ma dovrà uscire questo cane? Io avevo un cane... Non ricordo». La cura al veleno che ha intaccato una mente, privandola di agganci, lasciandola vagare inesausta è un monologo teatrale, il monologo teatrale per eccellenza. Altri però, altrettanto significativi, si affacciano improvvisi sulla punta della lingua e si contendendono il primato di rimedio: quello del padre, il fantasma Amleto, con le sue accuse, il suo sprone alla vendetta, il suo dettagliato racconto sul chi-come-perché è responsabile della spogliazione della corona, del trono e della sposa.

Essere Amleto. Essere il padre di Amleto. Essere Polonio «il baro nella bara». Essere la madre di Amleto «ombre che si affollano per la scena madre». Ofelia. Lo zio. Allora recitare «è scolpire... è polpa» ma tutte quelle voci che pure un attore contiene, rilascia, mette a riposo in camerino, ci sono solo se nell'attore non c'è la morte (assenza di memoria, assenza di sé): «se c'è la morte non ci sono io. E il cane? Dov'è il cane? Avevo un cane? Non ricordo». Struggente risuona più volte questa affermazione che mette un punto a un tormento, argina con grande pena un vorticoso affollamento di parole che consentono di ragionare ma sono niente rispetto al ricordare.

Quel grande letto singolo accanto all'attore, sembra ricordare la malattia ma anche la cura. Sembra voler accogliere, ma anche farsi monito: possibile trappola mortale. Malato e Letto, Amletto, non si coniugano come sonoramente parrebbe. Mai il malato è a letto o considera di farlo. Il gioco dei simboli è aperto e sembra moltiplicarsi ma solo fino a un certo punto. Poi una netta virata e una rivisitazione comica de La voix humaine di Cocteau: non una donna al telefono ma un uomo; dall'altro capo, non un amante/amato ma l'azienda dell'energia elettrica. Piuttosto che addentrarsi nei frammenti legati all'origine a all'io conflittuale - «papà non te ne andare... papà io farò l'attore... papà ascolta... io non sarei se mia madre non fosse stata adultera» - si sceglie di restare in superficie. Gli allacci con i tempi profondi del pensiero sull'identità, quelli che incrinano l'umano nel momento in cui si chiede chi è, scivolano via e si ritorna appoggiandosi su tempestive battute ai frammenti di Amleto. In fretta si toccano i punti salienti del dramma e si corre a Fortebraccio e al finale.

Una bella prova di Campanati che già in Orfeo rave "grazie" a un momentaneo lapsus aveva reinventato cavalcando l'istintivo suo smarrimento per restituirlo intatto alla sua Persefone en travesti: perduta qualche battuta, forte di un personaggio in età canuta, aveva lasciato alla ripetizione e alle lunghe pause il compito di incarnare quell'assentarsi fatale della mente, senza resistergli, dolcemente accodiscendendo.

Da vedere. 

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14 - 19 novembre 2017
@ Teatro della Tosse
prima Nazionale

Amletto
testo e regia Emanuele Conte
con Enrico Campanati
collaborazione alla drammaturgia Alessandro Bergallo e Alessio Aronne
luci Matteo Selis
costumi Daniela De Blasio
assistente alla regia Alessio Aronne
produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse

Di Laura Santini

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